Dopo lo stato di eccezione? Temporalità e storicità nell’epoca pandemica / After the state of exception? Temporality and historicity in the pandemic era

Issue 18 (Summer 2022), pp. 51-94

DOI: 10.6667/interface.18.2022.170

 

Dopo lo stato di eccezione? Temporalità e storicità nell’epoca pandemica
[After the state of exception? Temporality and historicity in the pandemic era]

Dario Altobelli

Università degli Studi "G. d'Annunzio" Chieti - Pescara

Abstract

Il contributo esplora l’ipotesi secondo cui l’epoca pandemica è caratterizzata da un particolare “regime di storicità” che, pur operante dalla fine del Settecento, ha trovato nella crisi del Coronavirus un’esplicitazione sul piano politico-giuridico nell’applicazione generalizzata del paradigma dello stato di eccezione.

Nella prima parte si delimita l’ambito concettuale e storico dello stato di eccezione, con particolare riferimento alla questione della temporalità e della storicità, nel pensiero di Carl Schmitt, Walter Benjamin e Giorgio Agamben, anche osservando alcune declinazioni nelle forme dello “stato d’emergenza” e altre simili disposizioni. Nella seconda, si perimetra il tema dello stato di emergenza sul caso italiano considerando le basi dell’architettura politico-giuridica su cui è stata gestita la crisi socio-sanitaria e introducendo il tema dei mutamenti nell’organizzazione statuale democratica determinati, non secondariamente, dal ruolo, inedito per estensione e diffusione, della tecnoscienza. Nella terza parte si amplia al livello globale la riflessione in prospettiva politico-giuridica e macrosociologica e si prendono in particolare in esame le dinamiche delle “società del rischio”. Nell’ultima parte, dopo una ripresa sintetica delle tesi esposte, si discute il problema della temporalità e della storicità dello stato di eccezione indicandolo come un’espressione strutturale e omologa dell’attuale “regime presentista” di trans-contemporaneità nel quale produce effetti di un falso movimento nel continuum storico bloccato. Schemi illustrano le diverse teorizzazioni discusse.

Parole chiave: stato di eccezione, pandemia, tempo, storia, regime di storicità

Abstract

This contribution explores the hypothesis according to which the pandemic era is characterized by a particular “regime of historicity” which, although operating since the end of the eighteenth century, found in the Coronavirus crisis an explication on a political-juridical level in the generalized application of the paradigm of the state of exception.

The first part delimits the conceptual and historical sphere of the state of exception, with particular reference to the question of temporality and historicity, in the thought of Carl Schmitt, Walter Benjamin and Giorgio Agamben, also observing some declinations in the forms of the “state of emergency” and other similar provisions. In the second, the theme of the state of emergency on the Italian case is delimited by considering the foundations of the political-legal architecture on which the socio-health crisis was managed and introducing the theme of changes in the democratic state organization determined, not secondarily, by the role, unprecedented by extension and diffusion, of technoscience. In the third part the reflection, in a political-juridical and macro-sociological perspective, is extended to the global level and the dynamics of the “risk society” are examined in particular. In the last part, after a synthetic resumption of the exposed theses, the problem of the temporality and historicity of the state of exception is discussed, indicating it as a structural and homologous expression of the current “presentist regime” of trans-contemporaneity in which it produces effects of a false movement in the blocked historical continuum. Schemes illustrate the different theories discussed.

Keywords: state of exception, pandemic, time, history, historicity regime

Aussitôt après que l'idée du Déluge se fut rassise,

Un lièvre s’arrêta dans les sainfoins et les clochettes mouvantes et dit sa prière à l’arc-en-ciel à travers la toile de l'araignée.
A. Rimbaud, Après le déluge, 1873

Our problem is to make that power effective and responsible, to make any future dictatorship a constitutional one. No sacrifice is too great for our democracy, least of all the temporary sacrifice of democracy itself.
C.L. Rossiter, 1948, p. 314.

Come ha mostrato Paul Ricoeur (2003), la fenomenologia della memoria – articolabile almeno nelle due domande fondamentali: di che cosa c’è ricordo? di chi è la memoria? – si modula su un registro epistemico e affettivo definito dalle più generali concezioni del tempo e della storia presenti in una determinata società. Tempo e storia, che trovano nel concetto di “regimi di storicità” (Hartog, 2003) una declinazione sul piano dell’esperienza e della conoscenza di un individuo situato in un determinato spazio/tempo sociale, costituiscono le pre-condizioni di qualsiasi manifestazione della memoria individuale e collettiva. In tale prospettiva, un’indagine sulle forme, sul significato e sulla dinamica della memoria nell’epoca pandemica deve misurarsi preliminarmente con la concezione del tempo e della storia in essa operante. L’ipotesi da cui muove questo contributo è che l’epoca pandemica sia caratterizzata da un particolare “regime di storicità” che trova esplicitazione sul piano politico-giuridico e socio-culturale nel paradigma dello “stato di eccezione”. Si intende, pertanto, riflettere – nel senso di procedere a una preliminare perimetrazione del problema – sul concetto dello stato di eccezione nella prospettiva della temporalità e della storicità da esso implicate.

Qual è il tempo di uno stato di eccezione? Qual è la sua temporalità specifica? Esiste una temporalità dello stato di eccezione rispetto a cui possa esistere un “dopo”? In che modo e con quali conseguenze lo stato di eccezione investe la dimensione temporale e in che termini entra in relazione con la storia e la storicità, determinando quindi anche lo statuto e la fenomenologia della memoria individuale e collettiva?

Per provare a rispondere a queste domande si procederà secondo il seguente ordine argomentativo:

  1. delimitare il perimetro concettuale e storico dello stato di eccezione, con particolare riferimento alla questione della temporalità e della storicità, nel pensiero di Carl Schmitt, Walter Benjamin, Giorgio Agamben; e osservarne alcune declinazioni nelle forme dello “stato d’emergenza” e di altre simili disposizioni;

  2. considerare lo stato di emergenza connesso alla crisi pandemica con specifico riferimento al caso italiano, rilevandone i principali profili politico-giuridici e operativi e collocandolo sullo sfondo di mutamenti istituzionali nell’organizzazione statuale democratica;

  3. presentare il concetto di stato di eccezione in una prospettiva macrosociologica e generale;

  4. concludere situando il problema della temporalità e della storicità dello stato di eccezione sullo sfondo dell’epoca moderna e contemporanea come sua espressione strutturale ed espressione della attuale regime di trans-contemporaneità.

Resterà non adeguatamente problematizzata la relazione tra tempo e storia, temporalità e storicità: un’analisi della questione, che dovrebbe essere in senso logico preliminare a questo studio, richiederebbe un necessario spazio dedicato. Tuttavia, di questa relazione si sono cercati di chiarire i nessi e le implicazioni principali rispetto alle tesi presentate e, per illustrare alcune concettualizzazioni della temporalità e della storicità evocate, sono proposti degli schemi che rendano visualizzabile un certo ordine del discorso lasciandolo aperto ad approfondimenti e sviluppi possibili.

1 Il perimetro concettuale e storico dello stato di eccezione

1.1 Carl Schmitt

Il concetto di stato di eccezione (Ausnahmezustand) risale nella sua forma più nota e teoreticamente più profonda a Carl Schmitt. In due testi, Die Diktature (1921) e soprattutto Politische Theologie (1922),[1] Schmitt ha teorizzato il concetto di stato di eccezione come un dispositivo consistente nella sospensione dell’ordinamento giuridico riguardo a situazioni considerate gravi e minacciose per l’integrità di uno Stato-nazione, con la finalità di conferire al governo poteri di carattere straordinario.

Questa teorizzazione presuppone la distinzione della coppia concettuale amico/nemico che costituisce l’essenza del politico nella sua filosofia politico-giuridica (Schmitt, 1932/1963). Il presupposto consiste propriamente nel fatto che l’ordinamento giuridico di uno Stato – che si incarna in età moderna e contemporanea in particolare nelle Costituzioni – grazie al quale una comunità assume una definita forma giuridico-legale, non deve mai essere considerato solo secondo la lettera, ma soprattutto secondo lo spirito, giacché esso richiede o riconosce, in ogni caso presuppone, una polarizzazione comunitaria, collettiva, sociale tra un “noi” e gli “altri”.

La questione dello stato di eccezione riguarda quindi che cosa succeda quando sono messe in pericolo la vita stessa della comunità dei cittadini e l’integrità dello Stato. In che modo uno Stato può reagire dinanzi al profilarsi o al realizzarsi di minacce, rischi e catastrofi che possono dissolverlo?

Per rispondere a questa domanda, Schmitt formulava un nuovo concetto di sovranità in base al quale «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» (Schmitt, 1922, p. 33). Rispetto a tale espressione molto nota e commentata, rileva sottolineare che, assunto nella rilevanza più profonda, lo stato di eccezione mette a nudo le radici di ogni ordinamento statuale, e in primis di quello fondato sulle carte costituzionali, mostrando che esso poggia, in ultima istanza, sempre su una decisione politica fondamentale che risponde, non secondariamente, all’imperativo di proteggere gli amici e combattere i nemici ovvero di difendere la società che lo Stato rappresenta e incarna. Tale decisione è a un tempo originaria e fondativa quanto continuamente rinnovabile e riattualizzabile. Per assolvere lo scopo, la sovranità in quanto decisione può, anzi, deve ricorrere alla sospensione dell’ordinamento giuridico ordinario collocando l’attività di governo in un’area concettuale e operativa i cui caratteri, profilo e perimetro sono ampiamente problematici.

Dalla considerazione che non si tratta di una mera discussione intorno a un concetto, ma del suo «concreto impiego, cioè su chi in caso di conflitto decida dove consiste l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico, le salut public e così via» (Schmitt, 1922, p. 34), il giurista rilevava una serie di questioni che discendono proprio dal problema della definizione del caso d’eccezione che, in senso logico, «non può essere descritto con riferimento alla situazione di fatto» (Schmitt, 1922, p. 34).

“Non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in un caso siffatto» (Schmitt, 1922, p. 34).

La decisione sullo stato di eccezione segue o presuppone una decisione sulla realtà della situazione che ne rende necessaria l’attuazione. Sovrano, in tal senso, è chi «decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo» (Schmitt, 1922, p. 34).

Da ciò discendono almeno tre conseguenze. La prima è l’evidenza della subordinazione del diritto allo Stato. «Lo Stato continua a sussistere, mentre il diritto viene meno», osserva Schmitt, e aggiunge:

L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica. La decisione si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio. Nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione.” (Schmitt, 1922, p. 39).

Per questo, in modo solo apparentemente paradossale, il sovrano «sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene a esso poiché a lui tocca la competenza per decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa» (Schmitt, 1922, p. 34).

La seconda conseguenza, dirimente per la presente riflessione, è che lo stato di eccezione è concetto che trova declinazione empirica rispetto a eventi non predeterminabili né sul piano del tempo (quando) né sul piano dei contenuti (cosa). La decisione sullo stato di eccezione è, in tale prospettiva, decisione abissale che concerne il potere di definizione delle situazioni sociali riguardo alla loro eccezionalità mostrando come illimitati «tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza». In un estremo limite di ragionamento, la decisione sullo stato di eccezione coincide con una decisione definitoria e creatrice di una realtà eccezionale: il sovrano «decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo». Non c’è alcun limite ipotetico all’esercizio di tale potere – ritenere che ciò possa trovarne sul piano dell’empirica verifica fattuale appare posizione infinitamente ingenua – ed è qui che risiede lo statuto fondamentale per la definizione della sovranità.

Lo stato di eccezione non è la risposta del sovrano all’eccezionalità di una situazione come se questa fosse in sé stessa autodefinita, ma è la definizione di una situazione come eccezionale da parte del sovrano in accordo o meno con la percezione sociale di tale eccezionalità e, al limite, con la realtà effettuale della cosa: si tornerà successivamente su questo tema sociologicamente rilevante.

Terza conseguenza: lo stato di eccezione ha una dimensione temporale contingente. Esso può essere “attivato” al presentarsi di un pericolo, di una minaccia, di un rischio e di una catastrofe – cioè di ciò che il sovrano può decidere che sia – al quale rimane inevitabilmente legato. La temporalità dello stato di eccezione è la temporalità della minaccia, del rischio e della catastrofe, ma lascia necessariamente imprecisato e imprecisabile il momento del superamento della situazione eccezionale. Anche questo è in ogni caso deciso dal sovrano: esattamente come per l’inizio, parimenti per la conclusione non si danno elementi di certezza e di ancoraggio fattuale che possano, nemmeno sul piano del ragionamento ipotetico, delimitare l’estensione a carattere costitutivamente illimitato dello stato di eccezione. La decisione sullo stato di eccezione come prerogativa della sovranità va intesa in tutta la sua estensione temporale dall’inizio alla fine e su entrambi i limiti temporali vige con un portato di volontà, discrezionalità e opportunità.

Schema 1: Temporalità dello “Stato di eccezione” (Schmitt)



Spiegazione dello Schema 1. Temporalità dello “stato normale” indica il procedere del tempo secondo l’immagine classica della freccia dal passato al futuro. Essa è la condizione di “normalità” nella quale possono darsi e dispiegarsi un ordinamento giuridico e uno Stato.

Temporalità dello “stato di eccezione” indica l’intervento della decisione sovrana come inserzione di una seconda linea temporale, parallela o sovrapposta a quella ordinaria o normale. Sul piano della temporalità, la decisione sullo stato di eccezione costituisce un termine post quem: il passato come tale è sbarrato. La decisione costituisce un’interruzione, una sospensione e un nuovo inizio: inaugura la temporalità propria dello “stato di eccezione” rispetto alla quale il passato può presentarsi come un tempo inaccessibile, irrecuperabile o superato. Rispetto al futuro, la temporalità dello “stato di eccezione” può prolungarsi indefinitamente come un presente che rimanda continuamente il suo compimento e il suo senso, se non intervenga una seconda decisione sovrana che ne interrompa la vigenza e riconduca alla temporalità dello “stato normale”.

In questo schema la dimensione temporale e quella storica tendono a coincidere.



1.2 Walter Benjamin

Il concetto è stato ripreso, rielaborato, approfondito in vario modo da diversi studiosi e in particolare, secondo una linea riflessiva che ha contribuito alla sua straordinaria problematizzazione, da due filosofi che si sono riferiti alla teorizzazione di Schmitt: il primo implicitamente: Walter Benjamin; il secondo esplicitamente: Giorgio Agamben.

Non è questa la sede per una ripresa dell’uso dell’espressione “stato di eccezione” nel pensiero di Benjamin. Si deve però ricordare almeno un passo fondamentale in cui essa ricorre: l’VIII tesi Über den Begriff der Geschichte (1942).

“La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero [nda: wirklichen: effettivo, reale] stato d’eccezione; migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance sta, non da ultimo, nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia. – Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva è insostenibile.”
(Benjamin, 1942, p. 33)

Che cosa significa che dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda al fatto che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola?

Il brano di Benjamin rovescia la logica temporale descritta da Schmitt e introduce il concetto di storia: la questione gnoseologica si riflette in una questione politica, la storia diviene il terreno di uno scontro intemporale, e ciò richiede l’impiego originale di un armamentario di concetti del materialismo storico e della teologia di tradizione ebraica.

Nello stato di eccezione non si tratta di una decisione su un evento avveniente o a venire; al contrario, si tratta di prendere coscienza di una permanenza temporale illimitata dell’eccezione come forma ordinaria di governo. Per Schmitt eccezione e norma si riflettono in un gioco di specchi in cui la prima si manifesta come sospensione dell’ordinario e normale ordinamento giuridico, la seconda come il presupposto della sovranità come decisione e dello Stato in quanto sovraordinato al diritto. In ogni caso, però, «il caso d’eccezione resta accessibile alla conoscenza giuridica, poiché entrambi gli elementi, la norma come la decisione, permangono nell’ambito del dato giuridico» (Schmitt, 1922, p. 39).

Per Benjamin, invece, non si dà più – e forse non si è mai data – alcuna reale distinzione tra eccezione e norma: esse coincidono com’è dimostrato nella storia dalla «tradizione degli oppressi» ed è da qui che occorre produrre uno stato di eccezione wirklichen.

Pertanto, per Schmitt la dimensione temporale dello stato di eccezione osserva un duplice statuto: sul piano concettuale, esso è possibile in ogni momento, ma sul piano empirico solo la decisione lo presentifica e può farlo terminare per un “ritorno” al regime ordinario. Per Benjamin, invece, lo stato di eccezione è la condizione di normalità: occorre quindi «scardinare il continuum della storia» (Benjamin, 1942, p. 47) spezzando il vincolo tra norma ed eccezione insediato nel cuore di ogni ordinamento politico-giuridico ordinario per arrivare a redimere il passato nel senso che «solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti» (Benjamin, 1942, p. 23). Non è lo stato di eccezione a essere possibile in ogni momento, bensì la chance rivoluzionaria che si cela in ogni attimo nel «tempo omogeneo e vuoto» (ivi: 55): la storicità penetra nella temporalità.

Così nell’importante tesi XVIIa, presente solo in un esemplare dattiloscritto dell’opera, ritrovato da Agamben, recante numerose correzioni a mano e la dicitura Handexemplar di Benjamin (1942, pp. 18-19), si legge

“In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica.”
(Benjamin, 1942, p. 55)

Centrale è la categoria temporale dell’adesso (Jetztzeit) nel quale «una debole forza messianica» [eine schwache messianische Kraft], che ogni generazione riceve da quelle che l’hanno preceduta, potrà manifestarsi come ripresa di possesso di tutto il passato strappandolo al racconto dei vincitori. Il compito dello storico, più precisamente del materialista storico, è compito conoscitivo perché politico, e politico perché conoscitivo. Giacché se si riconosce il «potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica», allora

“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.” (Benjamin, 1942, p. 27)

Temporalità e storia in Benjamin sono evocate in una relazione nella quale l’azione dello storico, del pensatore, del filosofo è intesa come azione conoscitiva e politica dentro il continuum temporale con la finalità di riaffermarne il valore sul piano della storicità. Che tale intervento del materialista storico, forte della teologia, nel continuum temporale letto come continuum storico possa poi rientrare in una sorta di attività decisoria specularmente opposta a quella del sovrano è questione che qui non può essere che accennata. Si configurerebbe un’ipotesi di lettura Schmitt-Benjamin in cui l’azione politica si troverebbe sdoppiata dal lato del sovrano nella decisione sullo stato di eccezione e dal lato del soggetto (subiectum) al potere sovrano nel cogliere la chance rivoluzionaria che rovescerebbe l’ordine esistente.

Indubbiamente è nella questione della relazione tra tempo e storia che Benjamin collocava il riferimento allo stato di eccezione come stato normale, così come è in una peculiare dimensione temporale che si esplicava la decisione sovrana di Schmitt.

Schema 2: Temporalità e storicità dello “Stato di eccezione” come “Stato normale” (Benjamin)



Spiegazione dello Schema 2. In questo schema temporalità e storicità dello “stato di eccezione” come “stato normale” si dispiegano entrambe sulla freccia del tempo.

La decisione sovrana è da sempre già data: essa è intemporale e astorica e come tale definisce la temporalità storicizzata come un «tempo omogeno e vuoto»: un presente perenne. La dimensione temporale e quella storica entrano così in una relazione polarizzata: la storia è la rappresentazione del tempo passato come “storia dei vincitori” e del tempo futuro come “progresso”, ma essa è altresì la posta in palio della chance rivoluzionaria e il luogo dove tutto il tempo si manifesta alla coscienza del subiectum come apertura sul possibile nell’adesso. Dal punto di vista del materialista storico, quindi, il passato e il futuro sono accessibili soltanto in forma ideologica, mediata e pre-orientata, egli sa che sul passato grava l’ipoteca del “conformismo” e che il futuro, agli occhi dell’Angelus Novus, non è altro che «un’unica catastrofe» (Benjamin, 1942, p. 37). La sua azione nell’adesso è pertanto un termine a quo dentro il continuum temporale come continuum storico e il suo obiettivo è la dissoluzione dello “stato di eccezione” come “stato normale” a favore di uno stato di eccezione “effettivo” in cui il passato e il futuro possano esporsi redenti all’umano.



1.3 Giorgio Agamben

Infine, si prende in esame la densa riflessione di Giorgio Agamben sul punto. Intanto, va ricordato che è stato lui a ricostruire il “dossier” essoterico ed esoterico del dibattito sul concetto di stato di eccezione fra Benjamin e Schmitt attraverso un’attenta lettura, filologicamente puntuale, delle occorrenze della relazione e della tematica tra i due filosofi, definendola una «gigantomachia intorno a un vuoto» in un testo che, unitamente ad altri suoi lavori, ha ripreso e introdotto questo concetto nel dibattito scientifico e accademico nel mondo (Agamben, 2003)[2]

Sul piano concettuale per Agamben lo stato di eccezione è

“l’arcanum imperii per eccellenza del nostro tempo. Ciò che l’“arca” del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita.” (Agamben, 2003, p. 110)

Agamben accoglie e sviluppa la posizione di Benjamin e la colloca nel cuore dei processi politico-giuridici e sociali della contemporaneità. Poiché «lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario» – cioè, esattamente nel senso benjaminiano, esso è la norma – occorre trarne le dovute conseguenze sul piano del pensiero critico e dell’azione politica. La prima di esse è la fine del diritto e dello stato di diritto:

“Non si tratta, naturalmente, di riportare lo stato di eccezione nei suoi limiti temporalmente e spazialmente definiti, per riaffermare il primato di una norma e di diritti che, in ultima istanza, hanno in esso il proprio fondamento. Dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di ‘stato’ e di ‘diritto’.” (Agamben, 2003, p. 111)

A parere del filosofo il problema più generale che pone il paradigma dello stato di eccezione come dispositivo di governo è che mette in luce il luogo di articolazione tra norma e vita, fra violenza e diritto, o diversamente detto tra nomos e anomia, e fra auctoritas e potestas. La questione va posta quindi in senso radicale – etimologicamente: risalendo alle radici storiche e concettuali di essa – riconoscendo in tali forme di articolazione il prodotto della «macchina biopolitica».

“Esibire il diritto nella sua non-relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto significa aprire fra di essi uno spazio per l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di ‘politica’. La politica ha subito una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto, concependo sé stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto. Veramente politica è, invece, soltanto quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto.” (Agamben, 2003, p. 112)

Lo spazio di un’azione politica può così darsi solo nella recisione del nesso fra violenza e diritto che possa risolversi in una disattivazione del diritto applicato alla vita e di una liberazione dell’azione rispetto allo scopo per riaffermare «tra le due, non un perduto stato originario, ma soltanto l’uso e la prassi umana che le potenze del diritto e del mito avevano cercato di catturare nello stato di eccezione» (Agamben, 2003, p. 113).

Sul piano della temporalità, lo stato di eccezione è ricondotto da Agamben, mediante gli esempi storici e antropologici presentati, e fra di essi in particolare l’istituto del diritto romano dello iustitium come importante precedente, a una categoria di “sospensione” o “interruzione” o “arresto” del continuum temporale. Questo “arresto” potrà anche assumere un carattere ricorrente come nel caso delle feste e delle cerimonie funebri che lo studioso prende in esame per tracciare il profilo fenomenico a carattere comparativo della struttura del dispositivo “stato di eccezione”.

Sul piano storico, infine, pur individuabile in una molteplicità di casi, Agamben sostiene che lo stato di eccezione è propriamente un paradigma di governo ed è costitutivo dell’ordine giuridico soprattutto in età moderna e contemporanea (Agamben, 2003, p. 16). Esso è attestato con continuità dalla Rivoluzione francese, in cui la sospensione dell’ordinamento giuridico era stata prevista come état du siège fictif o politique, subito ripreso e impiegato da Napoleone, e quindi presente in molti paesi europei, fra cui l’Italia dopo l’Unità, e negli Stati Uniti. Lo stato di eccezione, quindi, come concetto che trova declinazione in “stati di emergenza”, “stati d’assedio”, etc. è ampiamente attestato nel XIX e XX secolo come un dispositivo al quale governi di varia natura e tradizione fanno ricorso anche con frequenza.

Nella rassegna storica presentata, Agamben ricorda il ben noto caso della Costituzione di Weimar che nel famoso articolo 48 recitava:

“Se nel Reich tedesco la sicurezza e l’ordine pubblico sono seriamente (erheblich) disturbati o minacciati, il presidente del Reich può prendere le misure necessarie al ristabilimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, eventualmente con l’aiuto delle forze armate. A questo scopo egli può sospendere in tutto o in parte i diritti fondamentali (Grundrechte) [...].”

Sul punto osserva lo studioso:

“I governi della Repubblica, a cominciare da quello di Brüning, fecero uso continuativamente – con una relativa pausa tra il 1925 e il 1929 – dell’art. 48, proclamando lo stato di eccezione ed emanando decreti di urgenza in più di 250 occasioni; essi se ne servirono, tra l’altro, per imprigionare migliaia di militanti comunisti e per istituire tribunali speciali abilitati a pronunciare condanne alla pena capitale. In più occasioni e, in particolare nell’ottobre 1923, il governo fece ricorso all’art. 48 per fronteggiare la caduta del marco, confermando la tendenza moderna a far convergere emergenza politico-militare e crisi economica.” (Agamben, 2003, pp. 24-25)

Schema 3: Temporalità e storicità dello “Stato di eccezione” (Agamben)



Spiegazione dello Schema 3. In questo schema temporalità e storicità dello “stato di eccezione” tendono a coincidere.

La decisione sovrana si dà nel continuum storico sia come decisione a volta a volta presa, contestualizzata e situata, sia come temporalizzazione di eventi a carattere rituale ripetuti nella storia che inseriscono periodicamente la dimensione anomica nell’ordine sociale. Le due decisioni di avvio e di fine dello “stato di eccezione” hanno carattere in tal senso ricorsivo ovvero possono restare solo possibili. La linea temporale e quella storica sembrano accessibili in tutta la loro estensione, ma il dispositivo dello “stato di eccezione” tende a solidificare la dinamica storico-sociale in tutti i tempi storici in forme rigidamente configurate dei nessi norma e vita, violenza e diritto, nomos e anomia, e auctoritas e potestas. Proprio perché dispositivo attivabile o (già da sempre) attivato, lo “stato di eccezione” opera nel senso di un’omogeneizzazione della dimensione sociale quanto di un irrigidimento della dinamica temporale. L’azione politica può darsi propriamente solo come recisione nell’adesso dei nessi citati per aprire l’esperienza a un presente disteso su un tempo aperto.



Da quanto sommariamente presentato rispetto al pensiero di Schmitt, Benjamin e Agamben, emerge in tutta evidenza un fatto: il tema dello stato di eccezione pone di fronte a una prospettiva storico-sociale di lunga durata che ha una profonda stratificazione e innumerevoli diramazioni dentro e fuori del campo politico-giuridico. Lo si osserva esattamente con la questione della temporalità e storicità dello stato di eccezione: essa non investe soltanto la sua propria dimensione temporale, cioè la relazione che lo stato di eccezione intrattiene ontologicamente con la durata e la struttura del tempo storico nel quale si colloca come una forza deformante l’asse storico-temporale del continuum passato-presente-futuro, ma concerne anche – si introduce qui una seconda linea di riflessione che sarà discussa nell’ultima parte – una struttura di temporalità più ampia, cioè la dimensione propriamente sociologica del tempo sociale come orizzonte di senso condiviso e cornice epistemica all’interno dei quali si svolge la vita sociale e si determinano le connesse forme di vita negli ambiti politico, giuridico, economico e così via.

Alla domanda circa la dimensione temporale e storica intraspecifica dello stato di eccezione, quale sospensione dell’ordinamento giuridico / arresto del continuum / contingenza della decisione / indeterminatezza della durata che trova esplicazione nella connessione obbligata con la dimensione temporale di un evento al quale si riconosce – decidendone la definizione cioè costruendone la realtà – il carattere di minaccia, rischio e catastrofe per la popolazione di uno Stato e per lo Stato stesso, va affiancata un’altra domanda circa le caratteristiche della sfera storico-temporale di un’epoca moderna iniziata con la Rivoluzione francese, cioè con la rottura definitiva dell’ordine sociale di antico regime, e le connesse forme di governo, di diritto e di società da essa, direttamente o indirettamente, promananti, e in ogni caso da essa determinatesi, di cui il tempo contemporaneo reca tracce, testimonianze ed eredità.

2 Lo stato di emergenza per la pandemia da Sars-CoV-2 in Italia

Come richiamato dagli esempi storici citati, l’espressione “stato di emergenza” rappresenta la contingente concretazione del concetto di stato di eccezione e di fatto coincide con esso sul piano storico-sociale. Si mostra in tutta evidenza che tra le due espressioni sussiste una relazione logica paragonabile a quella tra un ente astratto e uno concreto o fra un disposto generale e il dispositivo particolare nel quale trova applicazione.

Con riferimento al tempo presente, nello specifico del caso italiano durante la pandemia, esso è il locus politico-giuridico e temporale nel quale si è dispiegata la gestione della crisi pandemica. Deliberato il 31 gennaio 2020 dal Governo Conte per la durata di sei mesi fino al 31 luglio 2020, lo stato di emergenza nazionale è stato prolungato, a volta a volta, fino al 31 marzo 2022.

Se si cerca l’esatto profilo giuridico dello stato di emergenza concernente la crisi pandemica, consultando le leggi se ne trova solo una cui fare riferimento. È il decreto legislativo numero 1 del 2008: formalmente si tratta del Codice della Protezione civile, citato infatti all’avvio della prima misura: «Il Consiglio dei ministri delibera ai sensi dell'art. 7, comma 1, lettera c), e l'articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della Protezione Civile) [...]».[3] Il Codice citato è pertanto l’unico testo normativo che definisce come ci si debba comportare con lo stato di emergenza in Italia: di seguito si considerano i due articoli più importanti per l’analisi.

L’art. 7. Tipologia degli eventi emergenziali di protezione civile classifica le tre tipologie di «eventi emergenziali”, secondo una gradazione della gravità e dell’estensione dal locale al nazionale, dall’ordinario allo straordinario, in

  • “a) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili, dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;

  • b) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che per loro natura o estensione comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni e debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo, disciplinati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano nell'esercizio della rispettiva potestà legislativa;

  • c) emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24.”

L’art. 24. Deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale [...] definisce invece le procedure richieste dal livello massimo di «emergenza di rilievo nazionale»:

  1. Al verificarsi degli eventi che, a seguito di una valutazione speditiva svolta dal Dipartimento della protezione civile sulla base dei dati e delle informazioni disponibili e in raccordo con le Regioni e Province autonome interessate, presentano i requisiti di cui all'articolo 7, comma 1, lettera c), ovvero nella loro imminenza, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l'intesa, delibera lo stato d'emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l'estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l'emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all'articolo 25 [...].

  2. La durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi.”

Si rifletta con attenzione sulla dinamica temporale disposta: «al verificarsi degli eventi [...] ovvero nella loro imminenza [...] il Consiglio dei ministri [...] delibera lo stato d'emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l’estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi».

Sul piano temporale, quindi, può scattare “lo stato di emergenza” non solo quando effettivamente si verificano eventi calamitosi, si penserà come esempio classico ai terremoti, ma anche in quella che si definisce la «loro imminenza». La dimensione predittiva dell’evento emergenziale è evocata con termine generico – “imminenza” – che può voler dire un tempo breve, brevissimo, ma anche più lungo, propriamente indeterminato e indeterminabile. Indubbiamente questo dispositivo temporale è coerente con la logica emergenziale: il punto è poter agire sia tempestivamente che con largo anticipo. Tuttavia, lo spazio temporale di agibilità dettato dalla minaccia, dal rischio e dalla catastrofe si trova a essere per sua natura esposto a un’arbitrarietà e a un’indefinibilità su cui occorre portare attenzione.

L’azione del governo sembra trovare un limite solo nella discrezionalità della definizione dei rischi su cui si dispone l’azione stessa così che entra in vigore una logica operazionale che può arrivare a confliggere con criteri di prudenza, proporzionalità e temporalità circoscritta. Il sopracitato comma 3 dell’art. 24 appare essere, come nei fatti poi si è dimostrato, soltanto il velo formale di una delimitazione temporale dello stato di emergenza che in re ipsa non appare poter essere contenuto in un perimetro preventivo quale esso sia. Da questo punto di vista, la norma, prevedendo un massimo di 12 mesi prolungabile per altri 12, pone solo il termine di una soglia formale, estesa fino a un massimo di due anni consecutivi, che, seppur apparentemente ragionevole, sembra destinata a naufragare sotto il peso di eventi catastrofici o della semplice loro minaccia nella misura in cui possano prolungarsi o reiterarsi indefinitamente secondo le definizioni che se ne potranno dare.

Sempre sul piano strettamente giuridico, quindi, vi è da considerare la conseguente velleità di poter contenere l’azione governativa secondo il disposto dell’art. 7, c. 1, lett. c per il quale le emergenze sarebbero da fronteggiare con «mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». È con tutta evidenza un assurdo rispetto alla logica temporale propria dello stato di eccezione, come vista in Schmitt, il disporre una “predefinizione” del tempo di emergenza.

La questione è, soprattutto, da porsi sulla definizione dell’emergenza stessa cioè sui processi decisionali e sull’attendibilità delle analisi e dei discorsi che, secondo la norma, sono in capo alla Protezione civile. Si tratta di un fatto rilevante perché introduce nella riflessione il ruolo della tecnoscienza e delle agenzie tecnoscientifiche nella definizione e nella gestione degli stati di emergenza contemporanei.

La Protezione civile è

“è il sistema che esercita la funzione di protezione civile costituita dall'insieme delle competenze e delle attività volte a tutelare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo.” (Codice della Protezione Civile, art. 1)

Nella sua sfera di competenza rientrano attività «volte alla previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, alla gestione delle emergenze e al loro superamento»; ove pre previsione si intende l’insieme

“delle attività, svolte anche con il concorso di soggetti dotati di competenza scientifica, tecnica e amministrativa, dirette all'identificazione e allo studio, anche dinamico, degli scenari di rischio possibili, per le esigenze di allertamento del Servizio nazionale, ove possibile, e di pianificazione di protezione civile.” (Codice della Protezione Civile, art. 2, c. 1-2)

Si apre qui il grande tema, che non è possibile affrontare in tutte le sue implicazioni, dell’estensione fattuale del potere esecutivo in età contemporanea per il tramite di enti tecnoscientifici. Osservata alla latitudine delle procedure di governo in paesi democratici, l’autorità decisionale e operativa riconosciuta a un ente come la Protezione civile, e si potrebbero citare parimenti il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) per l’Italia come, al livello internazionale, per esempio la World Health Organization (WHO) o l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), dovrebbe suscitare più di un dubbio sulle modalità di funzionamento dello stato di emergenza e sui rischi che esso, come si vedrà anche per preesistenti ragioni strutturali sul piano politico e giuridico, possa autonomizzarsi e indeterminarsi temporalmente in accordo a criteri di legittimazione interna non soggetti a controlli esterni e terzi. Se nella contemporaneità lo stato di eccezione diviene sempre più un dispositivo politico-giuridico ordinario del governo, ciò sembra poter avvenire con particolare e drammatica evidenza ove non si intendano prevedere e ammettere, nemmeno formalmente, modalità di controllo e verifica scientifici sulle cause dichiarate dell’emergenza stessa e sulle misure adottate per la sua soluzione.[4] Lo stato di eccezione si autoalimenterebbe in tal modo nella definizione tecnoscientifica dell’“evento eccezionale” che lo genera e lo legittima in termini di decisione politica.

3 Profili sociologici dello “stato di eccezione”

Accanto al fronte della riflessione politico-giuridica è necessario introdurre la prospettiva sociologica allargando lo sguardo nel tempo e nello spazio. Infatti, già da quel poco che si è detto, la situazione attuale non sembra essere qualcosa che appartenga soltanto alla contingenza degli ultimi due anni. Essa è piuttosto l’esito accelerato di un processo che filosofi, politologi, giuristi e non ultimi i sociologi hanno nel tempo variamente osservato.

Si prenda il caso, molto noto e dibattuto, della decretazione d’urgenza: essa è ormai in Italia una consolidata modalità ordinaria di azione dell’esecutivo. Ben prima della pandemia, i “casi straordinari di necessità e d’urgenza” previsti dall’art. 77 della Costituzione, quale norma attributiva di potestà legislativa primaria al Governo in deroga all’ordinaria attribuzione della stessa al Parlamento, sono stati diffusamente invocati dai governi negli ultimi decenni. Come si legge, per esempio, in uno studio della Corte Costituzionale, dalla metà degli anni Novanta e poi, specificamente, dal 2005, con l’introduzione di un sistema elettorale proporzionale corretto da un sensibile premio di maggioranza

“la stessa forma di governo si è assestata in direzione di un accresciuto ruolo del Consiglio dei ministri (e del suo Presidente) che, divenuto organo propulsivo del circuito dell’indirizzo politico, ha nei fatti assunto la titolarità della funzione legislativa non solo e non tanto secondo l’ordinario canale della presentazione di disegni di legge, ma con un intenso ricorso alla decretazione d’urgenza che ha acquisito un peso preponderante nella complessiva produzione del diritto di rango primario”. (Nevola, 2017)

Sul piano del merito si osserva, ed è facile ripensare alle analisi di Schmitt, che «la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina, può derivare da una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani, atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi». Da ciò discende che i «requisiti ineriscono non alle norme introdotte dal Parlamento in sede di conversione, ma esclusivamente al complessivo provvedimento adottato dal Governo [...] inteso come atto unitario fornito di intrinseca coerenza, cioè come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo [...]” (Nevola, 2017).

L’adozione di misure prese per ragioni emergenziali è qualche cosa di ben presente nell’ordinamento giuridico italiano ed è un fenomeno accresciutosi soprattutto negli ultimi 20 anni. Emergenza, urgenza e necessità sono termini a tal punto ricorrenti nella dimensione politica nazionale, e non solo, da aver ormai perduto una chiara referenza obiettiva.

La questione va intesa, sul piano storico e sociologico, nel modo più ampio possibile e va ricondotta, almeno come passaggio decisivo di cui non si smettono di misurare le gravi conseguenze, all’11 settembre 2001. Le misure contro il terrorismo dagli Stati Uniti e poi nel resto del mondo suscitarono un ampio dibattito sulla loro natura e sullo spostamento del perimetro dell’agibilità democratica negli Stati-nazione contemporanei. Già presente, sottotraccia o in modo più evidente, nella riflessione e nella prassi politico-giuridica, il paradigma della sicurezza che si contrappone alla libertà ha trovato da quel momento in poi una configurazione inedita per estensione, intensità e problematicità. Si pensi solo che un fenomeno eccezionale e statisticamente irrilevante come gli attentati suicidi contro le popolazioni delle città occidentali è stato considerato, nei presupposti e nei disposti di leggi monstre come l’USA Patriot Act (26 ottobre 2001), come un fenomeno normale, ordinario, ricorrente in ragione del quale si sono potute compiere inaudite violazioni dei diritti umani a partire dall’istituzione del campo di Guantánamo Bay. Non per caso si è parlato, senza mezzi termini, di «regressione istituzionale compiutasi dopo l’11 settembre», e di gravi e profonde derive politiche e giuridiche (Barberis, 2017).

Ma appunto nel 2001, come si potrebbe osservare per altri e medesimi versi rispetto all’attuale pandemia, sono giunti a piena evidenza processi già in atto da tempo. Molti studiosi hanno osservato come, da prima dell’11 settembre, si registrasse nei paesi occidentali un’evidente curvatura verso modalità di governo delle popolazioni che facevano sempre più ricorso a tecniche e a strumenti proprie delle situazioni di emergenza e di pericolo, di minacce e di rischi. Tali dinamiche rinviano a processi paralleli di trasformazione della forma dello Stato democratico in una condizione che è stata definita di post-democrazia: espressione che indica un tipo di governo che sembra rispettare formalmente le regole democratiche, ma con una progressiva diminuzione della partecipazione dei cittadini e un parallelo aumento di controllo, influenza e potere da parte di élite interne a istituzioni e organismi pubblici e privati come burocrazie, tecnocrazie, lobby finanziarie, economiche e politiche, mass e social media e, si aggiungano, apparati e organismi tecnoscientifici (Crouch, 2004).

Le conseguenze sul piano politico e sociale sono importanti: che ne è di uno Stato democratico quando esso inizia a funzionare soltanto sulla scorta di una gestione permanente di infinte emergenze?

A questa domanda si può tentare di rispondere entrando sul terreno della riflessione sociologica con il pensiero di Ulrich Beck che introdusse il concetto di stato di eccezione nelle note tesi sulla società del rischio. In particolare nella quinta di esse:

“i rischi socialmente riconosciuti contengono una peculiare esplosività politica: ciò che finora non era considerato politico (come l’eliminazione delle ‘cause’ nel processo stesso di industrializzazione) diventa politico. [...] Così, con spinte grandi e piccole (dagli allarmi da smog alle nuvole tossiche) nasce nella società del rischio il potenziale politico delle catastrofi. La necessità di proteggersi da esse e di gestirle può comportare una riorganizzazione di poteri e competenze. La società del rischio è una società catastrofica. In essa lo stato di emergenza minaccia di diventare la norma.” (Beck, 1986, p. 31, corsivi nel testo)

Successivamente, soprattutto negli anni 2000, Beck pose sempre maggiore attenzione alla questione sostenendo che «la società mondiale del rischio è una società (palesemente) rivoluzionaria, nella quale si sovrappongono lo stato normale e lo stato di eccezione» (Beck, 2007, p. 125) e più precisamente che

“la necessità di fare i conti con i rischi catastrofici induce a confrontarsi sul presente del futuro stato di eccezione planetario, che non può più essere limitato e gestito a livello nazionale. Lo stato d’eccezione non vale più all’interno di una nazione, ma a livello ‘cosmopolitico’ – dove dà luogo a nuovi conflitti, a nuove comunanze e a nuove opportunità di azione per gruppi di attori del tutto diversi.” (Beck, 2007, p. 125-126)

In particolare, il sociologo osservava che

“le catastrofi da effetti collaterali [nda: quelle legate allo sviluppo tecnoscientifico e capitalistico, per esempio la catastrofe climatica] comportano l’aspettativa di un pericoloso stato d’eccezione che mette in questione l’autorità statale, scientifica ed economica, cioè favorisce un depotenziamento dello Stato e un potenziamento dei movimenti sociali. Corrispondentemente, può verificarsi un’implosione del potere e della legittimità statale, scientifica e tecnica.” (Beck, 2007, p. 126-127, corsivo nel testo)

Di là dal riferimento al «depotenziamento dello Stato e un potenziamento dei movimenti sociali», che è posizione propria degli anni in cui scriveva e che è dato ritrovare in altri sociologi come Anthony Giddens (1990), è di assoluto rilievo l’insistenza sulla generalizzazione e diffusione dello stato di eccezione connesso al rischio in quel momento più pressante, il terrorismo, al punto da sostenere che «forse l’aspetto più rilevante della società del rischio terroristico è che al posto della chiara delimitazione dello stato d’eccezione subentra la caduta dei limiti di tale stato, sia dal punto di vista sociale sia da quello spaziale e temporale». Limiti superati sotto il profilo sociale per l’attribuzione o auto-attribuzione del potere di decisione sullo stato di eccezione da parte di attori non statali; sotto il profilo spaziale perché ormai esteso a tutto il pianeta; infine sotto il profilo temporale perché, come per la guerra al terrorismo così si è visto per le molte altre emergenze fra cui quella pandemica, non si vede una loro fine (Beck, 2007, p. 127-128, corsivi nel testo). Nella società globale del rischio, che è una società dei rischi globali, la forma di governo democratica è inevitabilmente sottoposta a uno stress che tende a modificarla strutturalmente.

Il punto di vista sociologico è, quindi, fondamentale per conferire alla riflessione sullo stato di eccezione nell’adesso quella profondità di sguardo che lo riconosca come un dispositivo strutturante l’intera realtà sociale e perfettamente coerente con la particolare struttura spazio-temporale nel quale trova vigenza generalizzata sino all’ordinarietà. Determinato dalle dinamiche della “modernità riflessiva” o “tarda modernità”, nella quale la dimensione dei rischi diviene parte costitutiva della vita sociale e di tutte le sue articolazioni individuali e collettive, lo stato di eccezione acquisisce uno statuto di inevitabilità sistemica che consente di leggerlo come dispositivo destinale della storia occidentale e mondiale. Quando si installa un regime ordinario di proliferazione di rischi, minacce e catastrofi continui, evitandosi in ogni modo di arrestare il continuum temporale capitalistico che solo autentiche e coraggiose decisioni politiche che ripensassero completamente l’ordine dominante potrebbero ambire di realizzare, gli Stati mostrano un’accentuazione dirigistica dei poteri in capo ai governi mediante l’esercizio di misure straordinarie ed eccezionali di normazione, giurisdizione e operatività, di estensione e durata indelimitabili, in senso proprio tendenzialmente prive di alcun limite.

Tutto questo meccanismo è reso possibile, però, anche grazie al ruolo e all’immenso potere detenuto nel presente dalla tecnoscienza. Come lo stesso Beck ha ampiamente discusso e dimostrato e, con lui, molti altri studiosi di area sociologica e non solo, all’impresa tecnoscientifica contemporanea, in particolare dopo la Seconda Guerra mondiale, vanno attribuiti due elementi decisivi per la configurazione del mondo attuale. Il primo è che i rischi sono un prodotto diretto dello sviluppo tecnoscientifico. Come effetti diretti o collaterali, prevedibili o ignoti, misurabili o no, la società del rischio è una società nella quale i rischi si generalizzano in ragione della pervasività della tecnoscienza e dei suoi prodotti che andranno interpretati all’interno del capitalismo e delle sue strutturali e irredimibili disfunzioni. Il secondo è che la tecnoscienza si pone correlativamente anche come un insieme di agenzie, tanto in concorrenza quanto in dinamica cooperazione tra loro, che pretendono di avere il monopolio nella definizione dei rischi oltre che di porsi come il mezzo principale per la loro soluzione in termini di una “industrializzazione secondaria” finalizzata allo sviluppo di soluzioni tecnoscientifiche per problemi di origine e natura tecnoscientifici: ed è esattamente quanto si è visto in Italia con i riferimenti alla Protezione civile, al CTS etc.

Ora, proprio Beck ha sottolineato che i rischi, poiché riferentesi a eventi che possono verificarsi, ma anche no, non esistono se non come costruzioni e definizioni sociali a carattere probabilistico sulle quali l’ultima parola spetta alla tecnoscienza.

“Di conseguenza, la loro “realtà” può essere drammatizzata o minimizzata, trasformata o semplicemente negata in conformità delle norme in base alle quali si decide del sapere o del non-sapere. Sono prodotti di lotte e conflitti per le definizioni nel quadro di determinati rapporti di definizione, cioè risultati di messe in scena (più o meno riuscite).” (Beck, 2007, p. 52, corsivi nel testo)

È esattamente il tema della decisione sullo stato di eccezione connesso alla pandemia prima evocato in questa specifica e decisiva prospettiva. Si rende evidente un’aporia fondamentale: la percezione sociale dei rischi è costruita, in prima istanza, sulla definizione che di essi fanno agenzie che partecipano attivamente a un sistema tecnico promotore di uno sviluppo tecnologico e scientifico che si rivela latore di rischi continui e sistemici nella forma di eventi imprevedibili, inattesi, collaterali o direttamente prodotti. Il fatto che oggi si riconosca politicamente, forse ancor prima che socialmente, il monopolio nella definizione dei rischi agli apparati tecnoscientifici ufficiali locali e globali, lascia impregiudicata la profonda contraddizione su cui l’intera produzione e gestione dei rischi si basa e le profonde conseguenze sulla tenuta degli stati di diritto. Non è superfluo ricordare a tal proposito il concetto di “stato tecnologico” che, secondo Helmuth Schelsky, in profonde riflessioni assai risalenti da riprendere criticamente, descriveva l’esautoramento della forma stato per opera della tecnoscienza.

“Le decisioni tecnico-scientifiche non possono essere determinate da un’opinione democratica consapevole, altrimenti sarebbero inefficaci. Se il governo basa le proprie decisioni politiche su leggi oggettive scientificamente determinate, esso diventa automaticamente un organo di amministrazione della necessità oggettiva e il parlamento si trasforma nell’organo deputato a verificare che l’opinione degli esperti sia corretta.”
(Schelsky, 1965, p. 459, in Beck, 1999, p. 97)

Pur risalenti a decenni fa, sono parole che sembrano attagliarsi perfettamente al caso della pandemia e trovano un riscontro in riflessioni recenti. Se per esempio ci si chiede quando propriamente “finisce” la pandemia, e correlativamente lo “stato di eccezione” che le è formalmente e informalmente corrispondente, la risposta può essere meno ovvia del previsto o non essere nemmeno formulabile. È stato correttamente osservato, proprio in un articolo di area biomedica, che «there is no universal definition of the epidemiological parameters of the end of a pandemic. By what metric, then, will we know that it is actually over? The World Health Organization declared the covid-19 pandemic, but who will tell us when it’s over?» (Robertson, Doshi, 2021). La questione appare essere “politica” e non “naturale”, “sociologica” e non “biologica”, sostengono Robertson e Doshi al punto che nel finale, la cosa non deve sorprendere, sembrano rinviare implicitamente anche a pensatori come Guy Debord e Jean Baudrillard, cioè alla critica radicale alla “società dello spettacolo” e all’ordine dei simulacri e della simulazione:

“As an extraordinary period in which social life was upturned, the covid-19 pandemic will be over when we turn off our screens and decide that other issues are once again worthy of our attention. Unlike its beginning, the end of the pandemic will not be televised.” (Robertson, Doshi, 2021)

L’idea di uno stato di eccezione come “stato normale” sembra trovare in riflessioni recenti e meno recenti ben più di un colto riferimento argomentativo: essa vi trova un saldo ancoraggio sul piano sociologico in cui sviluppare in modo deciso e profondo una critica severa della relazione sempre più problematica tra tecnoscienza, politica e società intesa come una delle condizioni predisponenti all’impiego generalizzato di questo dispositivo politico-giuridico.

4 Stato di eccezione e trans-contemporaneità

Il problema di una più ampia contestualizzazione storico-sociale dello stato di eccezione pone delle conclusive domande che definiscono il terreno di una riflessione in itinere. Sono le domande da cui si è partiti e alle quali occorre tornare: qual è il tempo di uno stato di eccezione? Quali sono la sua temporalità e la sua storicità specifiche? Esiste una temporalità dello stato di eccezione rispetto a cui possa esistere un “dopo”? In che modo e con quali conseguenze lo stato di eccezione investe la dimensione temporale nella relazione con la storia?

L’analisi basata sul pensiero di Schmitt, Benjamin e Agamben e verificata sul caso della pandemia in Italia e sullo sfondo di teorizzazioni sociologiche di più ampio raggio, ha consentito di individuare una specifica dimensione temporale nello stato di eccezione. Esso si esplica in relazione a un fenomeno contingente, annunciato, imminente o avvenuto, quindi secondo una temporalità condizionale (al verificarsi di...). Una volta deciso e messo in atto, lo stato di eccezione funziona come una forza gravitazionale verso cui collassa la dimensione temporale e con essa quella storica. Lo stato di eccezione mostra una temporalità sua propria capace di convogliare in sé stessa tutte le altre temporalità e di dare un indirizzo alla dimensione storica come effetto della sospensione del regime normale della vita sociale nella forma di una sospensione dell’ordinamento giuridico e politico ordinari. Per questo motivo, lo stato di eccezione, nelle sue concretazioni di “stati di emergenza”, “stati di assedio” etc., è o dovrebbe avere una durata limitata. Il rischio, ben compreso da giuristi e politologi, è che il regime eccezionale o straordinario possa imporsi e generalizzarsi nei termini di una nuova o differente “normalità” rispetto a quella precedente. Non da ultimo, lo stato di eccezione è un dispositivo che si attiva e si disattiva attraverso l’atto politico sovrano consistente in una decisione sulla realtà. Tale decisione di inizio e di fine assume in epoca contemporanea sempre più i contorni della decisione prodotta dal dominio tecnoscientifico quale “definizione del rischio”. Con ciò si apre il terreno a riflessioni sulla complessa relazione tra tecnoscienza, potere e società giunta, nella pandemia, a un’evidente quanto sovente negata criticità.

Lo stato di eccezione, quindi, da un punto di vista storico-temporale costituisce un’anomalia: punto di interruzione del continuum e instaurazione di un tempo altro per così dire sospeso tra un prima che potrebbe non essere più ripristinato e un dopo che potrebbe non arrivare mai. In questo senso le parole di Benjamin più volte richiamate affermano che se lo stato di eccezione è (già da sempre) la regola, allora solo una decisione opposta e contraria a quella sovrana può interrompere il continuum temporale dell’eccezione “normalizzata” in un momento qualsiasi, l’adesso (Jetztzeit), spezzando, seguendo Agamben, il vincolo che lega violenza, diritto e vita nella macchina biopolitica.

La questione ha raggiunto con la pandemia un’evidenza e una centralità che non sono più ignorabili. Non solo sono frequenti le affermazioni, provenienti dagli ambienti politici e tecnoscientifici, di nuove, inevitabili pandemie, ma si inizia ormai a parlare apertamente anche di “emergenza climatica”, di “razionamenti energetici”, anche in relazione alla più recente crisi globale innescata dal conflitto russo-ucraino, e di catastrofi annunciate alle quali si intende rispondere mediante uno stravolgimento integrale delle forme di vita sociale globali secondo agende sottratte ai processi decisionali democratici. Sono questioni importanti che meritano tutta l’attenzione possibile; vi è però una questione più ampia alla quale volgere un ultimo approfondimento: il tema al quale si è fatto riferimento della temporalità dell’epoca moderna e contemporanea e dei “regimi di storicità”.

Con questa espressione François Hartog indicava le modalità mediante le quali gli umani esperiscono e concepiscono la relazione con il tempo in una società. Elaborando il concetto dal pensiero e dalle proposte teoretiche di Marshall Sahlins, Reinhart Koselleck, Marcel Detienne e Claude Lévi-Strauss, Hartog propose di definire con l’antropologo Gérard Lenclud i regimi di storicità in due accezioni. Una, più ristretta, indicante i «termini in cui una società tratta il suo passato e ne parla»; l’altra, più ampia, «per designare “la modalità di coscienza di sé di una comunità umana”, vale a dire, [...] come essa “reagisce” a un “grado di storicità” identico per tutte le società». Oltre a uno scopo comparativistico, la nozione deve consentire di «mettere in luce i modi di relazionarsi al tempo: le forme dell’esperienza del tempo, qui e altrove, ieri e oggi: le maniere di essere nel tempo» (Hartog, 2003, pp. 49-50).

Inteso come strumento euristico, il concetto di regime di storicità permette il dispiegarsi dell’interrogazione storica intorno al «nostro rapporto con il tempo» e «principalmente i suoi momenti di crisi, qui e là, nel momento in cui le articolazioni del passato, del presente e del futuro vengono proprio a perdere la loro evidenza» (Hartog, 2003, pp. 56-57).

“L’attenzione, bisogna ripeterlo, si indirizza innanzitutto alle categorie che organizzano queste esperienze e permettono di dirle, ancora più precisamente alle forme o ai modi di articolazione di queste categorie o forme universali: il passato, il presente e il futuro. Come queste categorie di pensiero e d’azione, secondo i luoghi, i tempi e le società, sono messe in opera e finiscono con il rendere possibile e percettibili il dispiegamento di un ordine del tempo? Di quale presente, rivolto verso quale passato e quale futuro, si tratta qui o là, ieri o oggi?” (Hartog, 2003, p. 58)

In questo importante studio vi è l’introduzione della categoria di “presentismo”: la specifica esperienza del tempo propria della contemporaneità. Riprendendo il pensiero di Koselleck, secondo il quale il tempo storico si determina nella tensione tra il campo di esperienza e l’orizzonte di attesa, e sviluppandone la tesi che «la struttura temporale dei tempi moderni, segnata dall’apertura al futuro e al progresso, è caratterizzata dall’asimmetria tra l’esperienza e l’attesa» che, dalla fine del XVIII secolo, procede nel senso di un disequilibrio crescente «sotto l’effetto dell’accelerazione» (ibidem), Hartog si chiede se, diversamente da quanto auspicato da Koselleck, si sia imposta invece la configurazione

“di una distanza diventata massima tra il campo di esperienza e l’orizzonte di attesa, al limite della rottura, di modo che la produzione del tempo storico sembra come sospesa. Di qui forse questa esperienza contemporanea di un presente perpetuo, impercettibile e quasi immobile che cerca, nonostante tutto, di produrre per se stesso il proprio tempo storico. Tutto avviene come se non vi fosse che il presente, sorta di vasta estensione d’acqua che agita un incessante sciabordio. È più opportuno allora parlare di fine o di uscita dai tempi moderni, vale a dire di questa struttura temporale particolare, o del regime moderno di storicità? Non ne sappiamo nulla; di sicuro si può parlare di crisi. Sono appunto questo momento e questa esperienza contemporanea del tempo che designo come presentismo.” (Hartog, 2003, p. 58)

Le riflessioni di Hartog sono chiare e rinviano, indirettamente, al pensiero condiviso, secondo sguardi e prospettive diverse, di una serie di filosofi e sociologi contemporanei fra cui, oltre ai già citati Beck e Giddens, sono da ricordare Paul Virilio (1977), Jean-François Lyotard (1979), David Harvey (1990), Zygmunt Bauman (2000, 2017) e molti altri, sulle trasformazioni delle categorie dello spazio e del tempo nella contemporaneità sottoposte a processi di collasso, accelerazione, contrazione, uniformazione, compressione etc. nella loro espressione di tempo e spazio sociali.

Interessante è porre quelle riflessioni, sovente sviluppate in un fervente dibattito sulla post-modernità e sulle concettualizzazioni della modernità come multipla, riflessiva, incompiuta e così via, in dialogo con la tesi di Hartog. Oggi appare del tutto evidente che con post-modernità si intendeva propriamente un “territorio temporale di nessuno” indicato come un dopo ignoto di un qualche cosa di (presuntamente) noto come la modernità. Infatti un tempo concettualizzato, nel momento in cui lo si vive, come successivo a un altro pone di per sé più problemi di quanti intenderebbe risolverne. Eravamo e forse siamo ancora “dopo” un qualcosa definito come la modernità, che è categoria storico-temporale, filosofica, socio-politica attraversata da molteplici dimensioni di senso, ma non capiamo e non siamo in grado di dire in cosa ora ci troviamo se non appunto indicandolo con il “post”, il “dopo”, il “successivo a”.

In tal senso sono da riprendere e sviluppare alcune riflessioni di Jean Baudrillard (1990, 2000) per il quale il “post-moderno” sarebbe effettivamente il tempo della ripetizione e della simulazione, più che quello della fine delle grandi narrazioni e della storia. Baudrillard parlava della “ex-sterminazione” del tempo e della storia, e non tanto della loro terminazione, intendendo esprimere una sorta di processo di esaustione delle forze e dell’esperienza della temporalità vissuta dagli umani, un meccanismo di esaurimento dall’interno e dall’esterno delle riserve progettuali, programmatiche, vitali nei confronti del futuro e di un avvitamento nevrotico, autocelebrativo e inerte nei confronti di un passato musealizzato, archiviato, catalogato come “patrimonio culturale”, un punto quest’ultimo ampiamente discusso anche da Hartog.

Si tratta di un tema molto ampio che va posto sullo sfondo di una riflessione sociologica intorno alla relazione tra concezioni della storicità e struttura della società moderna. Com’è stato puntualmente osservato, se la dimensione storica è un prodotto delle società, allora

“nel momento in cui dovessimo perdere la speranza in un superamento nella direzione di una costante successione, ci ritroveremmo inevitabilmente attratti verso l’ascolto non dell’avvento di un altro tempo, ma del germogliare di quello che già ci definisce, ci troveremmo intenti a sospendere lo scorrere degli attimi per concentrarci sull’innovarsi di una sempre medesima temporalità.” (Bixio, 2013, p. 104)

La categoria temporale che si potrebbe presentare e su cui riflettere è, quindi, quella di una trans-temporalità di un tempo presente che ha inglobato qualsiasi ipotetica fine della storia e assimila incessantemente ogni idea di futuro, al netto delle ideologie sempre all’opera: un eterno presente che si dilata – è il presentismo proposto da Hartog (2003, p. 239): «si “parte” dal presente e non se ne “esce”» –, nel quale la società globale è immersa, in cui si definisce tutta la serie di categorizzazioni principali e prevalenti del passato, della storia, della memoria e delle idee di futuro e tempo a venire, e all’interno del quale si danno le forme dell’esperienza e dell’agire sociali.

Trans-temporalità indicherebbe sia la natura trasversale e crossover dei fenomeni culturali e simbolici (indistinzione o commistione dei criteri valoriali generali, etici, intellettuali, estetici e così via) sia l’effetto di sospensione storica e di assenza di profondità se non nelle forme offerte dalla prospettiva storico-cronologica – antiquaria nei noti termini di Nietzsche – che ordina la storia nei quadri di un’esposizione universale accessibile e predeterminata.

Nella sfera materiale e simbolica, oltrepassata la logica della creatività (opera d’arte) e della produzione (oggetto-merce), nella trans-contemporaneità non vi sarebbe più solo la riproduzione seriale di modelli (come i format) né soltanto gli effetti della simulazione sistemica per opera delle matrici (come i brand), ma una replicazione seriale di serie che saturano il campo del possibile nella forma di un catalogo senza fine, pure interamente accessibile quindi tendenzialmente finito, di tutta la storia umana presente passata e futura.

Il termine indicherebbe, inoltre, la condizione di scivolamento nel reale in assenza di qualsiasi possibilità, anche illusoria, di un punto privilegiato di osservazione e di un solido ancoraggio all’esperienza da parte di un soggetto destinato a mancare costitutivamente il locus dell’agire politico e la connessa comprensione della totalità sociale e quindi indotto a tentare di decentrare metodicamente e il punto di azione e il centro della conoscenza riflessiva.

E da ciò discenderebbero le condizioni predisponenti all’equivalenza generalizzata di tutti i punti di vista come posizioni universali relativizzate sul piano logico e valoriale. La differenziazione tra di essi sarebbe così unicamente riconducibile al mero piano contestuale, alle diverse situazioni a volta a volta definite, secondo criteri variabili e contingenti; e quindi anche mediante l’attivazione dell’autorità e della violenza nel latente conflitto politico e sociale quanto culturale e simbolico determinato da uno stallo dentro il sistema delle ideologie dominanti ricondotte al diktat del discorso pubblico nel capitalismo: there is no alternative.

Ora questo problema trova una particolare cogenza ed evidenza sociale e politico-giuridica proprio con lo stato di eccezione. La domanda che bisogna porsi è: gli stati di eccezione declinati come stati di emergenza, divenuti stati normali di governo, anche per le ragioni sistemiche della società globale dei rischi, non sono forse la forma politico-giuridica propria di questo tempo storico? In altri termini: la base delle democrazie parlamentari e degli stati di diritto che si sono affermati nel processo della modernità, e quindi della modernizzazione in ogni settore sociale come sviluppo ed esito della razionalizzazione, allargando lo sguardo dal periodo di fine dell’“ancien régime” con la Rivoluzione francese all’industrializzazione e allo sviluppo del capitalismo nei secoli XIX e XX, non è stata erosa proprio dalla dimensione storico-temporale affermatasi con la modernità e dal connesso regime di storicità, denominabile come «ascesa del presentismo» (Hartog, 2003, pp.145 sgg.), in condizioni di “stato normale”?

Schema 4: Regime storico-temporale presentista e trans-contemporaneo in condizioni di “Stato normale”



Spiegazione dello Schema 4. In questo schema la temporalità dello “stato normale” segue la classica linea orientata dal passato al futuro.

Il regime di storicità del presentismo e della trans-contemporaneità presenta tre caratteristiche: 1) il passato è accessibile, ma solo nella forma del Patrimonio culturale e dell’Archivio/Museo; 2) il presente è esteso indefinitamente; 3) il futuro è di fatto sbarrato, inaccessibile, al limite nemmeno pensabile perché gravato dal peso di un passato che ritorna continuamente e di un presente che non cessa di essere presente. La relazione tra la temporalità e il regime di storicità descritti si traduce in una linea temporale aperta, in ipotesi, su entrambi i fronti del passato e del futuro, ma nei fatti vincolata per il primo alle forme di un’esperienza mediata collettivamente e per il secondo impedita dalla realizzazione di una vera e propria visione progettuale degli scopi dell’agire su una prospettiva più ampia del solo sguardo presentista.



In tale prospettiva si può sostenere che la “fine della storia” – nei termini qui presentati: il futuro sbarrato – «è il segno dell’insuperabilità dell’orizzonte sociale. L’insuperabilità dell’orizzonte sociale a sua volta implica la “fine della società”. La società, infatti, finisce nel momento in cui cessa essa stessa di essere portatrice di un proprio superamento verso un assetto sociale totalmente altro» (Bixio, 2013, p. 105).

Allora l’espressione “dopo lo stato di eccezione” è problematica non soltanto perché lo stato di eccezione può non prevedere, nella teoria e nei fatti, alcun “dopo”. Essa lo è per un motivo fondamentale: è nello stallo storico-temporale del presentismo e della trans-contemporaneità che diviene necessario decidere ogni volta sul senso della società e della storia, sulla loro direzione, sulla loro configurazione. La sospensione dell’ordine sociale per il tramite della sospensione dell’ordinamento giuridico da un lato non è altro che un processo di riflessione, socialmente mediato in forme politico-giuridiche, della temporalità sospesa propria della trans-contemporaneità; dall’altro costituisce l’evento mediante il quale ripristinare, nella temporalità eccezionale instaurata, il flusso temporale ordinario come dominio della storicità e dell’azione politica come progetto e processo storici.

C’è una relazione di omologia che non è possibile ignorare tra la temporalità dello stato di eccezione e quella della trans-contemporaneità: in entrambe vige un principio di sospensione e arresto del continuum temporale, ma con la decisione sullo stato di eccezione si conferisce un impulso decisivo al movimento del continuum storico sbarrato. Lo stato di eccezione è, in tale prospettiva, il dispositivo mediante il quale sembra si possa dare un moto a una situazione strutturalmente inerziale, immobile, congelata; questo avviene nella contraddittorietà di una temporalità artificiosamente stabilita – decisa – a sua volta sospesa, indeterminata e indeterminabile, e capace, apparentemente, di tradursi in una disposizione efficace sul piano storico. Dalla relazione di omologia si produce così un falso movimento perché da una parte non si modifica il generale regime di storicità nel quale si svolge la vita sociale e dall’altra si determina una sorta di “bolla” storico-temporale artatamente sospesa in una temporalità indeterminata in cui la vita rimane catturata ed esposta a decisioni dirette sul perimetro e sull’area dell’ordine sociale, del normale e del consentito, e della vita biologica e sociale.

Schema 5: Regime storico-temporale presentista e trans-contemporaneo in condizioni di “Stato di eccezione” (Schmitt)



Spiegazione dello Schema 5. In questo schema la temporalità dello “stato di eccezione” riprende la formulazione vista in Carl Schmitt.

Il regime di storicità del presentismo e della trans-contemporaneità assume una configurazione nella quale: 1) il passato non è di fatto accessibile per l’azione politica, eccetto che nella forma del Patrimonio culturale e dell’Archivio/Museo che si rivela così nella sua reale natura illusoria e di costruzione ideologicamente orientata; 2) il presente è esteso indefinitamente; 3) il futuro è sbarrato, inaccessibile e al limite nemmeno pensabile eccetto che nella forma di una (eventuale) decisione di fine dello “stato di eccezione” che ricondurrebbe, però, al futuro negato della trans-contemporaneità. La relazione tra la temporalità e il regime di storicità si traduce in una linea temporale chiusa su entrambi i fronti del passato e del futuro. Lo stato di eccezione si mostra come un dispositivo omologo sul piano della temporalità e della storia alla contrazione presentista del connesso regime di storicità.



Questo dispositivo, per il quale tanto più risaltano le teorizzazioni di Benjamin e Agamben come fonti di un pensiero critico che cerca una via d’uscita da una condizione opprimente oltre la soglia della preoccupazione, sembra infine aver trovato una dimensione globale e una forma totalitaria, che è pacifico riconoscere nelle attuali trasformazioni in tutto il mondo determinate dalle misure contro la pandemia, grazie all’estensione smisurata del potere della tecnoscienza: una questione su cui occorrerà proseguire e approfondire la riflessione.

Car depuis qu'ils se sont dissipés, — oh! les pierres précieuses s’enfouissant, et les fleurs ouvertes! — c’est un ennui! et la Reine, la Sorcière qui allume sa braise dans le pot de terre, ne voudra jamais nous raconter ce qu'elle sait, et que nous ignorons.

References

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[1] Nelle citazioni si riporterà l’anno di edizione originale del testo seguito dal numero di pagina dell’edizione italiana o in altra lingua consultata.

[2] Sulla relazione Schmitt-Benjamin e le questioni qui evocate è di notevole interesse la riflessione di G. Galli discussa con lo stesso Agamben, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in occasione della pubblicazione dell’edizione integrale di Homo sacer (2018), con G. Preterossi, il 29 novembre 2018: https://www.youtube.com/watch?v=9QLSMptn2MU.

[3] Delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020. Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili (https://www.osservatoriosullefonti.it/emergenza-covid-19/fonti-governative/delibere-del-consiglio-dei-ministri/3008-emcov-deliberacdm1).

[4] In tale prospettiva va segnalato il fatto che né CTS, né Ministero della Salute, né ISS hanno sinora accolto le molte e ripetute richieste di confronto scientifico pubblico avanzate da comitati di scienziati, ricercatori, medici in merito alle decisioni e alle politiche promosse e assunte nella gestione della crisi pandemica. Si veda, ad esempio, De Luca, 2021.

× Footnote:
[received April 29, 2022
accepted July 17, 2022]

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