Malattie scambiate: Peste e Colera in Percy e Mary Shelley

Issue 17 (Spring 2022), pp. 59-84

DOI: 10.6667/interface.17.2022.163

 

Malattie scambiate: Peste e Colera in Percy e Mary Shelley

Aureo Lustosa Guerios

University of Padua

Abstract

L'obbiettivo di questo articolo è discutere la rappresentazione delle malattie epidemiche presenti in The Revolt of Islam (1818) di Percy Bysshe Shelley e The Last Man (1826) di Mary Wollstonecraft Shelley, opere prodotte durante la prima pandemia di colera (1817-1824) che colpì duramente l'Asia, ma non arrivò in Europa. Argomenterò che questi testi utilizzano il termine generico “peste” per raffigurare indirettamente il colera e, in questo modo, riflettere sull'ansia dell'invasione e del contagio.

Keywords: colera nella letteratura, peste nella letteratura, malattie finzionali, critica tematica

English Abstract

The goal of this article is to discuss the depiction of epidemic diseases in The Revolt of Islam (1818) by Percy Bysshe Shelley and The Last Man (1826) by Mary Wollstonecraft Shelley, works produced during the first cholera pandemic (1817-1824) which affected Asia deeply but did not reach Europe. I will argue that these texts use the generic term "plague" to indirectly represent cholera and, in this way, reflect on the anxiety of invasion and contagion.

Keywords: cholera in literature, plague in literature, fictional diseases, thematic criticism

Il Vibrio cholerae è un batterio non invasivo che sussiste preferibilmente in acque salmastre e fitoplancton, ma, quando ingerito da esseri umani, può alloggiare temporaneamente nell'intestino tenue, dove produce una tossina che impermeabilizza il tratto intestinale e limita la capacità del corpo di assorbire liquidi. Impossibilitato ad idratarsi, l'organismo prova paradossalmente a liberarsi dell'infezione espellendo una grande quantità di liquidi attraverso frequenti deiezioni corporee. Seguono, allora, dissenteria e vomito che possono ripetersi decine di volte al giorno.

La grave disidratazione addensa il sangue, causa insufficienza cardiaca e renale, e conferisce alle vittime del colera il loro aspetto caratteristico: occhi infossati, rughe sulle mani e sui piedi, pelle bluastra, fredda e poco elastica. Inoltre, insiemi ai liquidi sono eliminati anche sostanze importanti per il normale funzionamento delle cellule, come il sodio e il potassio, la cui mancanza crea uno squilibrio elettrolitico che causa, in aggiunta agli altri sintomi, dolori acuti, crampi muscolari, letargia, difficoltà a parlare ed, eventualmente, coma.

L'azione della malattia è rapida: il colera colpisce subitamente, senza preavviso, e, nonostante uccida in una media di due o tre giorni, in alcuni casi può anche farlo in poche ore. Il suo relativo tasso di mortalità è allo stesso modo molto elevato, fra il 50% e il 60% dei casi non trattati. Tuttavia, il tasso di morbilità, ossia la percentuale della popolazione che contrae la malattia, nonostante possa variare enormemente, è normalmente basso, storicamente inferiore al 5% in Europa. Sono rari i casi in cui una percentuale superiore al 10% della popolazione è stata contaminata. Il colera è, allora, una malattia di bassa morbilità e alta mortalità, al contrario, per esempio, dell'influenza, che colpisce una grande percentuale della popolazione (alta morbilità), ma causa poche morti (bassa mortalità).

Un trattamento efficace contro il colera è apparso soltanto dopo i progressi nella terapia di reidratazione compiuti da Sir Leonard Rogers, già nel ventesimo secolo, che insieme agli antibiotici diminuì il tasso di mortalità a meno di 1% (Echemberg, 2011, p. 43). Durante il diciannovesimo secolo, le terapie utilizzate per i medici si basavano principalmente su tre elementi: medicine a base di mercurio, che inconsapevolmente intossicavano i pazienti; purgativi volti ad espellere l'elemento infettivo, ma che in realtà aumentavano ancora di più la già grave disidratazione; l'estrazione di sangue attraverso salassi e sanguisughe, che indeboliva ulteriormente le vittime. In questo modo, i medici spesso contribuivano all'aumento della mortalità, motivo per cui Howard-Jones (1972, pp. 373) designò la terapia contro il colera come “a form of benevolent homicide”. Questo fatto generò diverse teorie cospiratorie fra la popolazione che si credeva perseguitata, vittima di un complotto di “untori” organizzato dalle autorità per sterminare i poveri.

Poiché non esistevano terapie adeguate, la modalità più comune per combattere il colera durante il diciannovesimo fu, prioritariamente, quella di prevenire la sua diffusione, utilizzando spesso pratiche create o perfezionate per gestire la peste, come quarantene, cordoni d'isolamento e ospedalizzazioni forzate. Intorno al 1850, movimenti igienisti incominciarono campagne pubbliche per migliorare la gestione dei rifiuti nelle grande città europee. Questi attivisti lavorarono per indurre i politici all'azione e per sensibilizzare la popolazione sull'importanza della pulizia, circostanza che comportò diversi miglioramenti alla salute pubblica. Una svolta significativa provenne dall’adozione di una legislazione più attenta alla salute della popolazione, allo stato delle abitazioni, alla salubrità degli spazi di lavoro (Chevalier, 1958). Altre furono l’impiego di metodologie statistiche per descrivere la salute pubblica e lo sviluppo di un apparato burocratico per controllare quello che Foucault (2004 [1979]) chiamerà di “biopouvoir”. A ciò si aggiunga la creazione sistematica di sistemi fognari, impianti di trattamento d'acqua e giardini pubblici, che migliorarono il benessere generale della popolazione. Lo sviluppo del colera si lega dunque ai processi di riurbanizzazione delle grandi città europee avvenute nel diciannovesimo secolo, come quelle di Londra, Parigi o Napoli.

Tuttavia, ancorché l'igienismo abbia avuto un grande impatto nella lotta contro le malattie epidemiche del diciannovesimo, bisogna considerare che i presupposti medici su cui si basavano tante delle riforme, anche se efficaci nella pratica, risultavano scorretti scientificamente.

Durante la maggior parte del secolo non si sapeva cosa esattamente causasse il colera. L'esistenza delle cellule e delle batterie era già conosciuta, ma la teoria dei germi come base della medicina moderna si è diffusa gradualmente soltanto dopo i lavori di Virchow, Pasteur, Hansen, Koch e altri, tra 1870 e 1890. Esistevano per questo motivo una pluralità di teorie su cosa causasse il colera, e quasi tutte collegavano, da una parte, i cosiddetti miasmi, elementi infettivi generati dalla decomposizione di materia organica (immondizia, cadaveri, gli effluvi di fogne e pantani, ecc.) presenti principalmente nell'aria, e da un'altra, elementi circostanziali come cattiva nutrizione, bassa qualità delle abitazioni, mancanza di riposo e pratica sportiva, insufficienza di aria fresca e luce solare, e tanti altri.

Il vibrione fu scoperto, in realtà, prima della rivoluzione della teoria dei germi, nel 1854, dall'anatomista italiano Filippo Pacini, che, però, pubblicò le sue osservazioni in un giornale di bassa circolazione, circostanza che comportò una scarsa risonanza nella comunità scientifica. Nello stesso anno, il medico inglese John Snow, in uno dei primi studi epidemiologici della storia della medicina, dimostrò l'esistenza di un legame fra il colera e l'acqua, dopo aver comparato la distribuzione geografica delle vittime e la distribuzione di acqua a Londra. Ciononostante, Snow non riuscì a spiegare quale fosse il meccanismo d'infezione e, di conseguenza, non riuscì a convincere un numero significativo di colleghi. Nel 1883, Robert Koch fu invece in grado di isolare il vibrione in pazienti colpiti dal colera in Egitto, confermando in questo modo il legame fra il batterio e la malattia proposto da Pacini. L'anno dopo, Koch rintracciò il vibrione in un lago contaminato in India, corroborando così il legame fra il colera e l'acqua suggerito da Snow e scoprendo la trasmissione del batterio per via oro-fecale.

1 La Prima Pandemia di colera, 1817-1824

Il colera fu storicamente considerato endemico al delta del Gange, in India, dove la descrizione di una malattia con sintomi simili sarebbe stata documentata in sanscrito già nel quinto secolo (Barua, 1992, pp. 1-3). Questa suposta origine indiana del colera, però, è stata messa in discussione da studi recenti (Hamlin, 2009), che sottolineano i pregiudizi di molte fonti primarie e sostengono che un'ampia distribuzione geografica della malattia sarebbe meglio allineata con il comportamento e l'ecologia del batterio. Ciononostante, ci sono notizie di epidemie più recenti ristrette all'India, una particolarmente devastante fra il 1765 e 1776 (Schader, 1985, p. 5), normalmente collegate a festività religiose, in cui si radunavano grandi moltitudini di pellegrini che, in seguito, portavano la malattia a casa con sé.

All'inizio dell'Ottocento una serie di avvenimenti conferì al colera una maggior mobilità. Per primo, l'intensificarsi del colonialismo inglese attraverso la progressiva espansione della East India Company: dopo la Battaglia di Plassey, nel 1757, l'azienda trasformò l'Imperatore Mughal in un governatore fantoccio e, per i successivi sessant'anni, continuò ad allargare direttamente e indirettamente la sua area d'influenza. In questo modo, nel 1818 la East India Company controllava già la totalità del subcontinente indiano. Apparvero così al vibrione nuove possibilità di propagazione attraverso le costanti operazioni militari, lo spostamento di truppe e popolazioni, il miglioramento dei sistemi di trasporto, l'intensificarsi del commercio con l'Europa.

In aggiunta, nel 1815, si verificò la maggior eruzione vulcanica degli ultimi due millenni, quando il vulcano Tambora esplose in Indonesia ed espulse una quantità massiccia di elementi nella atmosfera e nell'oceano (Wood, 2014). L'eruzione cambiò la costituzione chimica dei mari circostanti e, di conseguenza, distrusse gli ecosistemi marini di cui fa parte il vibrio cholerae, spingendo il vibrione a cercare altri habitat. Inoltre, microbiologi discutono anche la possibilità che gli elementi chimici rilasciati dell'eruzione abbiano provocato nel batterio cambiamenti genetici che avrebbero aumentato la sua infettività. Wood afferma, basandosi su i lavori delle microbiologhe Mercedes Pascual e Rita Colwell:

“In 1817, the acquatic environment of the Bay of Bengal had deteriorated radically owing to the disrupted monsoon, a consequence of Tambora's dimming presence in the stratosphere. By a process that remains mysterious in its details, the altered estuarine ecology then stimulated an unprecedented event of genetic mutation in the ancient career of the cholera bacterium.” (Wood, 2014 , p. 89)

Le abbondanti emissioni di cenere causarono anche anomalie climatiche che raffreddarono il pianeta dai 0,5 agli 0,8 gradi centigradi, generando negli anni seguenti inverni freddissimi. Il 1816, per esempio, fu chiamato “l'anno senza estate”. Le temperature eccezionalmente basse causarono perdite nell'agricoltura e scarsità di cibo in tutto il mondo, fattori che indebolirono la popolazione (Wood, 2014, p. 9).

Normalmente, l'acidità dello stomaco è una barriera efficace contro il vibrione e, in molti casi, riesce a impedire la contaminazione. In un individuo malnutrito, tuttavia, il pH dello stomaco è spesso più basico e questo lo rende più suscettibile alla malattia. Quindi, il colera trovò negli anni seguenti alla esplosione del Tambora popolazioni indebolite e predisposte a sviluppare l'infezione.

Una serie di fattori contribuirono insieme, dunque, a facilitare la propagazione del vibrione per il globo nel 1817, quando ebbe inizio la prima pandemia di colera.

La pandemia incominciò probabilmente nelle vicinanze di Kolkata, da dove si diffuse per il subcontinente, arrivando l'anno dopo a Mumbai, nella costa occidentale. Nel 1820 raggiunse la Thailandia e le Filippine, l'anno seguente arrivò all'Indonesia e alla Cina, e, nel 1822, al Giappone, e all'Impero Turco-Ottomano, in regioni che oggi corrispondono all'Iran, Siria, Georgia, Armenia e Azerbaijan. Nel 1823, colpì le Isole Mauritius, lo Zanzibar, e arrivò alla città portuaria di Astrakan, in Russia. L'anno dopo, però, la trasmissione ebbe fine, probabilmente a causa dell'inverno particolarmente rigido (Hays, 2005, p. 193).

La prima pandemia non arrivò all'Europa, ma i governi del continente accompagnarono i suoi movimenti con attenzione attraverso agenti diplomatici. Il colera causò anche un primo impatto culturale attraverso le relazioni di viaggiatori europei e, specialmente, attraverso i trattati prodotti dai medici inglesi in India. Alcuni di questi testi erano enormemente speculativi e amplificarono le cifre di mortalità in maniera sorprendente. Hays afferma a questo riguardo: “Moreau de Jonnès (1831) put the death toll at about 18 million, and other writers increased their estimates to as many as 50 million” (2005, p. 198).

Secondo i calcoli del Maddison Project Database (2018), la popolazione del globo intorno all'anno 1820 era di circa 1.042 milioni, dei quali 224 (21%) vivevano in Europa – numero, questo, che include anche le repubbliche dell'ex URSS nell'Asia Centrale. La Francia aveva poco più di trentuno milioni di abitanti, il Regno Unito ventuno, l'Italia venti. Se il colera avesse davvero ucciso cinquanta milioni di persone soltanto in Asia, infatti per gli europei sarebbe stata una catastrofe: mantenuta la letalità, il morbo avrebbe sterminato un quarto della popolazione, un numero degno della peste nera. Hays commenta ulteriormente le esagerazioni, ritenendole come l'origine della isteria della popolazione:

“No evidence supports such beliefs, but their currency at the time when the second cholera pandemic was reaching Europe and North America helps explain the near-hysteria that it generated as it approached” (Hays, 2005, p. 198).

Lo storico R. J. Morris presenta una conclusione simile quando discute la rappresentazione della seconda pandemia nei giornali inglesi che, nel 1831, con l'obbiettivo di conquistare l'interesse del pubblico, incoraggiarono l'allarmismo descrivendo la malattia con toni drammatici:

“The nature of the newspaper and periodical Press as a media is, and was, to select striking details to gain and retain the interests of readers. This, as always, increased the apparent tension, violence and pace of an incident. The very language of the articles was calculated to increase alarm – scourge, plague, pestilence, Asiatic violence, devastation, rampage, desperate, formidable, capricious, mysterious, intractable and so on. It was a diet which promised social and economic confusion to a waiting country.” (Morris, 1976, pp. 27-28)

Al di là delle testimonianze dei giornali e trattati medici, è curioso rilevare come le stesse persone che vissero l'epidemia spesso amplificassero il tasso di mortalità, probabilmente in modo sincero, ma poco affidabile.

Charlotte Blake Thornley, per esempio, aveva quattordici anni quando il colera arrivò a Sligo, in Irlanda, nel 1832. Lei e la famiglia scapparono della città e tutti sopravvissero. Circa quarant'anni dopo, Charlotte descrisse l'epidemia in una lettera destinata al figlio, lo scrittore Bram Stoker, che la usò successivamente come fonte per uno dei racconti di Under the Sunset (1881).

Nella lettera, Charlotte delinea il colera come una “peste terribile” ed enfatizza la sua novità:

“In the days of my early youth the world was shaken with the dread of a new and terrible plague which was desolating all lands as it passed through them, and so regular was its march that men could tell where next it would appear and almost the day when it might be expected. It was the cholera, which for the first time appeared in Western Europe.” (Stoker, 2003, p. 412)

Charlotte prosegue con la descrizione dei primi casi di colera, la fuga della popolazione, quella della sua famiglia, e racconta episodi in cui individui furono sepolti ancora vivi o che scapparono dalla sepoltura per poco. Alcuni critici letterari hanno visto in queste storie gli antecedenti degli undeads di Dracula (1897).[1]

Charlotte conclude il suo racconto con una stima drammatica del numero di morti, cinque ottavi della popolazione: “At the end of that time we were able to live in peace till the plague had abated and we could return to Sligo. There we found the streets grass-grown and five-eighths of the population dead.” (Stoker, 2003, p. 418).

La popolazione di Sligo all'arrivo del colera era di circa quindici mila persone, secondo Samuel Cohn Jr. (2018, p. 167). Se, come afferma Charlotte, cinque ottavi fossero deceduti, il numero di morti sarebbe stato di circa 9.375, ossia, il 62,5% della popolazione. Eppure, il numero di morti registrato ufficialmente in tutta l'Irlanda è di 20.070 abitanti su una popolazione totale di 7.784.539 (Creighton, 2014, p. 816), vale a dire, una tassa di mortalità dello 0,26%. Se la stima di Charlotte fosse corretta, ciò significherebbe che la metà di tutti i decessi dell'Irlanda ebbero luogo a Sligo.

Ufficialmente, il numero di casi della città fu di 1.230, che causarono 641 decessi (Cohn Jr., 2018, p. 167). Questo numero ispira poca fiducia ed è probabilmente basso, dato che molti casi non erano registrati e le autorità stesse a volte mascheravano i numeri. In ogni caso, se lo accettiamo, il tasso di morbilità sarebbe di circa 8,2% e il tasso di mortalità di 4,3%, dati che, in confronto con i 0,26% dell'Irlanda, confermano che Sligo fu particolarmente colpita dall'epidemia. Possiamo anche comparare questi numeri a quelli di Bilston, la città più colpita d'Inghilterra in cui, su una popolazione di 14.500, ci furono 2.250 casi (15,5%, il doppio di Sligo) e 693 morti (4,7%) (Cohn Jr., 2018, p. 167). La comparazione rivela, allora, che una mortalità di 4,3% è verosimile e, anche se la aumentassimo cercando di correggerla, saremmo comunque abbastanza lontani degli 62,5% di cui parla la lettera.

2 The Revolt of Islam

Fin qui ho discusso i sintomi del colera e il suo iniziale impatto storico. Ho provato a mostrare come si espanse per il globo durante la prima pandemia, e come alcune delle sue caratteristiche epidemiche generarono rimembranze dei tempi della peste. Ho anche argomentato che l'Europa rispose con allarmismo ed esagerazioni alla nuova malattia “orientale”, e ho utilizzato come esempio di questo fenomeno un trattato medico, alcuni testi giornalistici e la lettera di Charlotte Stoker, testi diversi ma tutti ben rappresentativi della diffusa inquietudine. La natura varia di questi discorsi, uno medico scientifico, uno informativo e pubblico, e l'ultimo narrativo e privato, rivela come l'ansia e, posteriormente, il trauma causati dal colera fossero profondi.

Ora argomenterò che la letteratura si inserisce ugualmente in questo dialogo, se pur in modo più metaforico e meno esplicito. Per farlo, utilizzerò due opere inglesi che discutono il tema indirettamente, The Revolt of Islam (1818) di Percy Shelley e The Last Man (1826) di Mary Shelley, entrambe scritte durante la prima pandemia e pubblicate prima che il colera arrivasse in Europa, nel 1832.

The Revolt of Islam è un lungo poema narrativo, composto in stanze spenseriane (otto endecasillabi, seguiti di un alessandrino, rimati in ababbcbcc), divise in dodici canti. Il poema fu scritto e pubblicato nel 1817, però sotto un titolo diverso: Laon and Cythna; or, The Revolution of the Golden City: A Vision of the Nineteenth Century. Questo titolo lungo e triplice mostra una funzione programmatica e offre al lettore indizi sulla natura allegorica del testo. Innanzitutto, i nomi dei protagonisti sono inabituali e suonano grecizzati, forse carichi di significato. Inoltre, il riferimento a una città immaginata, la 'Città d'Oro', invoca un registro mitico e fa pensare a Eldorado o al Regno di Prete Gianni. Poi, l'uso della parola 'visione' nel sottotitolo costringe il lettore a chiedersi se troverà una rappresentazione di avvenimenti già passati, e, dunque, un 'episodio', una 'immagine', oppure se vedrà vicende venture, una 'predizione', una 'profezia'. Infine, il riferimento cronologico preciso al diciannovesimo secolo punta a una interpretazione del presente.

La prefazione dell'opera conferma i primi sospetti del lettore. Shelley (1818) dice di aver condotto uno 'esperimento' cercando di scoprire se “[the] thirst for a happier condition of moral and political society survives […] the tempest which have shaken the age in which we live” (p. V). L'obbiettivo esplicito del testo, dice l'autore, è di infuocare nei lettori l’entusiasmo per la libertà e la giustizia. In effetti, la critica legge spesso il poema come un manifesto idealista e una metafora della disillusione risultante dell'insuccesso della rivoluzione francese.

Il poema narra la storia d'amore incestuoso di Laon e Cythna e della rivoluzione che conducono per liberare la città di Argolis del tiranno Othman. Dopo anni di privazioni, gli innamorati quasi raggiungono la vittoria, ma infine falliscono, venendo catturati e bruciati vivi davanti al trono del despota.

Il poema è chiaramente scritto per sostenere la guerra d'indipendenza greca, ideale caro all'autore e al suo circolo, e si struttura su dicotomie tipicamente romantiche e orientaliste: la libertà contro la tirannia, la civilizzazione contro la barbarie, la ragione contro l'oscurantismo e così via.

I nomi dei personaggi rispecchiano questo contrasto. “Laon” è l'accusativo di λαός, laós, greco antico per 'popolo', 'moltitudine' e anche 'soldati'. È anche rilevante il fatto che questa sia la base di λαϊκός, laïkós, che può significare tanto 'popolare', quanto 'laico', 'non ecclesiastico'. “Othman”, a sua volta, è la traslitterazione arcaica del nome del fondatore dell'Impero Turco-Ottomano, chiamato in turco di Osman, ma in arabo di عُثمَان , 'Uthman. “Cythna” sembra essere un nome coniato da Percy e la sua radice è meno trasparente, forse derivata dell'isola di Citera (Κύθηρα, Kýthira), il luogo di nascita della dea Afrodite.

La Città d'Oro, il posto in cui si passa l'azione e, chiaramente, un doppio di Costantinopoli, ha un nome ugualmente simbolico. “Argolis” è la traslitterazione di Argolide (Ἀργολίς Argolís), la regione del Peloponneso che è una delle culle della civiltà greca. È anche il posto dove si trova la città di Argo, Άργος, uno dei più antichi insediamenti umani abitati ininterrottamente. Il patrionimico applicato ai cittadini di Argo è Ἀργεῖος, e questo è giustamente il termine che nell'Iliade è impiegato al plurale per designare i greci in generale, gli Achei (Ἀργεῖοι, Argeioi). In questo modo, il nome scelto per la Città d'Oro è carico di tutta una rete di significati che rimandano alla lingua, alla storia e alla cultura greca e che, di conseguenza, enfatizzano l'usurpazione e la mancanza di legittimità del tirano Othman[2].

Nel 1818 Percy cambiò il titolo dell'opera a The Revolt of Islam, scelta curiosa visto che il testo non discute l'Islam di per sé, ma condanna le religioni in modo generale e critica particolarmente il cristianesimo. L'Islam è dunque impiegato unicamente come elemento orientalista, una sineddoche che indica indirettamente l'Impero Turco-Ottomano.

Nell'intreccio del poema “pestilenze” e “pesti” appaiono due volte. La prima è nel Canto VI, quando l'esercito condotto da Laon e Cythna è vinto in battaglia e, dopo tenace resistenza, gli amanti scappano insieme. Nel cammino si imbattono in una città desolata, dove Laon si reca da solo per cercare cibo e, arrivato nella piazza principale, trova tutti gli abitanti massacrati, la fontana circondata dai cadaveri di donne, vecchi e bambini, e non riesce a berne l'acqua, perché bagnata in sangue.

L'unica persona sopravvissuta alla strage è una donna di aspetto appassito (withered) che non sembra più umana, ma un mostro (fiend), e che impazzì dopo l'uccisione dei due figli ancora pargoli. Prima che Laon percepisca la sua presenza, lei gli salta addosso improvvisamente, lo bacia in bocca e, ridendo scatenatamente, grida: “Now Mortal, thou hast deeply quaffed / The Plague's blue kisses – soon millions shall pledge the draught!” (Shelley, 1818, p. 152, Canto Sixth, stanza XLVIII). La donna si identifica come la personificazione della Pestilenza – lo dirà ancora due volte, “My Name is Pestilence […]” (Shelley, 1818, p. 152) –, il suo bacio è blu, e, presto, milioni ne proveranno un sorso. Il suo discorso continua: dice di spostarsi di continuo per uccidere e soffocare, “hither and thither / I flit about, that I may slay and smother”; descrive il suo petto come secco, “this bosom dry”; e definisce il suo contatto contagioso, “All lips which I have kissed must surely wither”; tale da rendere le sue vittime deboli e desidratate (wither) (Shelley, 1818, p. 152).

Credo che si possa affermare che la malattia immaginata e personificata in questo passo, ancorché chiamata “peste”, è il colera. Diversi elementi possono giustificare questa interpretazione. Per primo, l'insistenza sugli aggettivi withered e dry, entrambi impiegati come sinonimi di “secco” (aspetto “assecchito” della donna, il suo petto “secco”, le vittime “desidratate”) fa pensare alla profonda disidratazione dei pazienti colerosi e alla loro pelle caratteristicamente rugosa. Poi, i movimenti del personaggio riecheggiano l'azione della malattia: lei si sposta di continuo con l'unico obbiettivo di uccidere e il suo attacco è repentino e subdolo, senza preavvisi, come quello del colera. Dopo, il bacio è aggettivato di blu, il colore tipico del morbo che, in inglese, è chiamato spesso il blue cholera. Inoltre, la predilezione fatta nel 1817 riguardi al fatto che milioni di individui saranno colpiti nel futuro prossimo è, non solo, corretta, ma anche fatta in un luogo immaginato allo stesso tempo come “l'Oriente”, l'origine geografica generica della malattia, e come l'Impero Ottomano, che difatti avrebbe sofferto la malattia in diverse delle sue regioni entro pochi anni. Finalmente, se accettiamo l’analisi di The Triumph of Life fatta da Alan Bewell (1999, pp. 205-241), questo non sarebbe l'unico testo in cui Percy Shelley impiega la retorica della peste per riferirsi al colera.

Laon richiede l'aiuto della signora per trovare cibo e, appena trova del pane, abbandona la città per tornare a Cythna. Al contrario di quanto dichiarato, il “bacio blu” non comporta conseguenze nefaste, cosa che conferma i sospetti del lettore: il personaggio non è una personificazione sopranaturale della peste, ma semplicemente una donna impazzita, e i cittadini furono uccisi dai soldati dell'esercito nemico e non da una malattia.

Ad ogni modo, la predilezione della donna si confermerà più tardi nell'azione, nel Canto X, quando Othman ordina il massacro della popolazione, i cui corpi sono lasciati sui campi a putrefarsi. Dopo sette giorni, il “sole ardente”, il “calore stagnante” e “l'aria assetata”[3] trasformano le esalazioni dei cadaveri in miasmi, “[…] and a rotting vapour past / From the unburied dead, invisible and fast” (Shelley, 1818, p. 218, Canto Tenth, stanza XIII), che generano una “peste”, una “malattia strana” fra le bestie che periscono dopo “hideous spasm, or pains severe and slow” (Shelley, 1818, p. 219, Canto Tenth, stanza XIV). L'epidemia uccide ugualmente pesci, uccelli, mammiferi, e persino insetti, che muoiono di “un'agonia impotente”. La morte degli animali, a sua volta, causa una carestia che indebolisce ulteriormente la popolazione sopravvissuta al massacro e prepara il terreno per l'arrivo della “Peste blu”: “Then fell blue Plague upon the race of man” (Shelley, 1818, p. 222, Canto Tenth, stanza XX).

Come ho affermato precedentemente, la prima pandemia fu preparata da perdite nell'agricoltura nel 1816, di modo che la “Peste blu” condivide con il colera non solo il colore, ma anche il contesto di arrivo. In aggiunta, lei è generata da miasmi e vapori nocivi di origine organica, un'applicazione precisa delle teorie scientifiche dell'epoca sull'origine del colera e altre malattie epidemiche, come la febbre gialla o la malaria. Infine, i sintomi manifestati per gli animali, anche se non rispecchiano perfettamente quelli del colera, potrebbero anche descriverlo.

La “Peste blu” decima la popolazione della città: migliaia (thousands, myriads, a multitude) periscono per strada “ululando e muggendo” sotto “feroce tortura” (Shelley, 1818, p. 222); le vittime hanno sete e, provando inutilmente a saziarla, muoiono dentro e intorno ai pozzi, generando ancora più miasmi; la malattia “tortura” e causa “dolori selvaggi”, “vene scoppianti”, “cicatrici innominabili” e “pustole livide”[4]; i malati vedono la propria “immagine magra”, “l'io spettrale” diventato una “visione terrificante”[5]; alcuni provano, prima di morire, a propagare il contagio; altri sono sepolti vivi nella piramide di cadaveri intorno alla fontana.

Un'altra volta troviamo curiose similarità fra la “Peste blu” e il colera: entrambe preferiscono ambienti urbani, sono ripulsive, sono generate per miasmi, causano dolori acuti, le loro vittime si avvizziscono. Le pustole fanno pensare ai bubboni della peste nera o le vescicole del vaiolo, ma il loro colore livido ricorda la pallidezza e le estremità bluastre dei colerosi, cosa che dimostra il carattere ibrido della rappresentazione del morbo. Per di più, il seppellimento di malati ancora vivi, su cui insisterà Charlotte Stoker anni dopo a proposito del colera, è praticato anche nel testo in esame.

L'episodio è importante per la narrativa per due motivi. Il primo è attribuire la colpa alla diffusione del morbo: furono gli ordini sanguinosi di Othman che scatenarono la serie di eventi che condussero all'epidemia. Così, è possibile creare nell'intreccio un legame fra malattia e barbarismo, cosa che si ripeterà continuamente nei discorsi sul colera. A questo riguardo, Echenberg (2011, p. 19) afferma:

“Part of this response [of emotion and fear] was the growing assumption that “Asiatic” cholera was a reflection of Asia's barbarity, despite the inability of European medical opinion to comprehend the cause and mode of transmission of the disease”.

Il secondo motivo, è giustificare l'immolazione che chiude l'opera: un sacrificio umano è promesso agli dei come una forma per placare l'epidemia e risulterà nell'uccisione di Laon e Cythna, confermando le predilezioni della signora impazzita del Canto VI. In questo modo, “i baci blu della Peste” (Shelley, 1818,p. 152) sono stati, alla fine, veramente mortali.

Fino a questo punto ho provato a dimostrare come le pestilenze presenti in The Revolt of Islam svolgono un ruolo importante nello sviluppo dell'intreccio e presentano alcune caratteristiche emblematiche del colera. Ora passerò ad analizzare un testo in cui l'ansia del contagio è ancora più centrale.

3 The Last Man

The Last Man fu pubblicato da Mary Shelly nel 1826 e si tratta di un romanzo di fantascienza apocalittica in cui una nuova malattia stermina la popolazione mondiale.

Il testo si apre con una prefazione che gioca la carta del manoscritto ritrovato. Un narratore non identificato – ma che l'autrice prova a confondere con se stessa – trova, durante una visita all'inaccessibile caverna della Sibilla Cumana a Napoli, manoscritti in latino, greco e altre lingue che contengono predizioni future. L'ingresso alla caverna è descritto attraverso i topoi della letteratura di esplorazione e il testo prova ad attivare rimandi epici virgiliani. La scoperta avviene nel 1818 e ora, passati otto anni, il prefatore porta le profezie all'attenzione del pubblico, editate, unificate e tradotte.

Le profezie narrano un'unica storia, stranamente in prima persona: l'io narrante è Lionel Verney che racconta la storia della sua vita, dalla nascita, alcuni anni prima del 2073, fino al presente della narrazione, nel 2100, quando è l'ultimo essere umano di cui si abbia notizie e percorre il globo cercando altri sopravvissuti.

Così come in The Revolt of Islam, la nuova malattia è chiamata genericamente “peste” – anche se le vittime non presentano i sintomi della peste nera – ed è altamente letale: il narratore è l'unica persona che vi è sopravvissuto e, conseguentemente, ne è diventato immune.

La malattia uccide tutti quelli che la contraggono e lo fa improvvisamente: pochi minuti separano l'apparizione dei sintomi dalla morte. È questo il caso di un contadino che, soffermandosi per sentire un discorso fatto in pubblico, in pochi minuti, incomincia a tremare, sbatte le ginocchia e i denti, sente irrigidirsi le membra, “cambia a tanti colori, giallo, blu, e verde”, mostra convulsioni e muore mentre grida di dolore[6]. La morte istantanea, la gestualità incontrollata e i cambiamenti di colori, sono, a mio avviso, quasi una caricatura del colera portata allo stremo.

Per di più, anche in The Last Man il flagello nasce “nell'Oriente”, immaginato un'altra volta non come l'India, ma come l'Impero Turco-Ottomano. Nel momento in cui la peste si presenta per la prima volta, infatti, i personaggi principali lottano nella guerra d'indipendenza greca – che si trova, alla fine del ventunesimo secolo, praticamente nello stesso punto dov'era nel momento della scrittura, all'inizio del diciannovesimo – e sono alle mura di Costantinopoli – come il testo preferisce chiamare Istanbul, adottando la stessa strategia di enfatizzare l'illegittimità dell'occupazione attraverso la scelta di nome greci.

La nuova malattia non è nata nel Ganges, ma nel Nilo, nell'Egitto che, fino al 1867, era ancora sotto il controllo dell'Impero Turco-Ottomano:

“That word, as yet it was not more to her, was PLAGUE. This enemy to the human race had begun early in June to raise its serpent-head on the shores of the Nile; parts of Asia, not usually subject to this evil, were infected. It was in Constantinople; but as each year that city experienced a like visitation, small attention was paid to those accounts which declared more people to have died there already, than usually made up the accustomed prey of the whole of the hotter months.” (Shelley, 1826, vol. II, p. 19)

In aggiunta, il governo Ottomano, spesso descritto come “barbarico”, “tirannico” e “incivile”, è considerato parzialmente colpevole per non aver percepito in tempo la letalità anomala della nuova malattia.

Più avanti, il narratore riproduce alcuni rumori che affermano che un sole nero sarebbe apparso in Oriente. A questo punto, la trascuratezza delle autorità ottomane diventerà piccola in confronto alla negligenza di tutto un continente che, a causa del fenomeno astronomico, calpesta i morti per strada senza rendersene conto:

“though the dead multiplied, and the streets of Ispahan, of Pekin, and of Delhi were strewed with pestilence-struck corpses, men passed on, gazing on the ominous sky, regardless of the death beneath their feet” (Shelley, 1826, vol. II, p. 131).

Il testo afferma anche che è normale che la mortalità della peste cresca durante i mesi più caldi, cosa rilevante perché lo stesso può essere detto dal colera, che normalmente colpiva più severamente d'estate. Per questo motivo, più avanti nel romanzo, quando la peste arriverà all'Inghilterra, i personaggi ancora vivi fuggiranno dal continente, in direzione della Svizzera, dove immaginano che la malattia sarà meno severa a causa del clima freddo.

Un altro punto di contatto fra la nuova peste e il colera è l'inesistenza di trattamento efficace. L'unica forma per combatterla è attraverso la prevenzione, anche se i personaggi non sono d'accordo sulle misure adeguate da adottare.

Il primo passo per i personaggi è capire cosa causa la malattia: la peste è contagiosa? è causata per agenti infettivi trasmessi di persona a persona?, è come la peste nera?; oppure, è causata da elementi putrefatti presenti nell'atmosfera?, sono i miasmi dall'aria e dalle acque a provocarla?, è come la malaria?.

Queste sono le questioni con cui si confrontarono reiteratamente scienziati e governi lungo tutto il diciannovesimo secolo. Se il colera fosse causato da miasmi presenti nell'ambiente, non avrebbe senso creare quarantene o cordoni d'isolamento, sarebbe invece necessario creare sistemi sanitari e ristrutturare l'urbanizzazione delle città. Se il colera fosse, però, causato da un agente infettivo, il flusso di persone e merci dovrebbe essere rigorosamente controllato, mentre miglioramenti delle abitazioni o del sistema fognario sarebbero considerate irrilevanti (Baldwin, 1999).

Questa polarità, e l'ambivalenza che necessariamente ne risulta, è evidente in molti trattati medici del diciannovesimo secolo. Il Dr. Holland, per esempio, inviato a investigare lo scoppio dell'epidemia di colera a Sunderland, scrive nel 1831 di non avere dubbi che il colera è allo stesso tempo contagioso e non contagioso (una posizione chiamata contingent contagionism):

“I have no doubt that the disease is both contagious and non-contagious. To explain myself fully respecting the latter opinion would compel me to write more than you would like to read, and therefore we will pass it over. In support of the former, it is easy to produce evidence which is everything but demonstrative; and of this kind of proof the subject does not admit. It is not at all uncommon in our daily visits to find that two or three of a family have been swept away in rapid succession, the disease apparently passing from one to the other; such evidence, however, is quite insufficient to satisfy the non-contagionist. He demands something like ocular demonstration, which is rather difficult to adduce.” (Stokes, 1921, p. 131)

Il narratore di The Last Man è allo stesso modo riluttante su quale posizione debba adottare. Da una parte, afferma con sicurezza che è già comprovato che la peste non sia contagiosa nello stesso modo della scarlattina o del vaiolo, ma da l'altra, usa attraverso il testo la parola 'contagio' come sinonimo di 'peste' e riconosce che la questione è ancora aperta alla discussione:

“That the plague was not what is commonly called contagious, like the scarlet fever, or extinct small-pox, was proved. It was called an epidemic. But the grand question was still unsettled of how this epidemic was generated and increased. If infection depended upon the air, the air was subject to infection. […] But how are we to judge of airs, and pronounce—in such a city plague will die unproductive; in such another, nature has provided for it a plentiful harvest? In the same way, […] bodies are sometimes in a state to reject the infection of malady, and at others, thirsty to imbibe it.” (Shelley, 1826, vol. II, p. 146-147)

Durante la discussione su quali siano i migliori mezzi per evitare che la peste arrivi in una città come, per esempio, Londra, uno dei personaggi protesta dicendo che è assurdo pensare che una tale malattia possa raggiungere una città “ben governata” (Shelley, 1826, vol. II, p. 122). In effetti, il narratore è d'accordo, visto che, oltre a essere protetta per lo sviluppo della sua civiltà, l'Inghilterra è naturalmente isolata da una barriera di paesi europei:

“These were questions of prudence; there was no immediate necessity for an earnest caution. England was still secure. France, Germany, Italy and Spain, were interposed, walls yet without a breach, between us and the plague. […] We could not fear—we did not. Yet a feeling of awe, a breathless sentiment of wonder, a painful sense of the degradation of humanity, was introduced into every heart.” (Shelley, 1826, vol. II, p. 147)

Questo tipo d'incredulità rispetto all'arrivo del colera in Europa è tipico dell'inizio del secolo. Eugenia Tognotti dimostra, per esempio, come una commissione di salute, formata nel Regno di Sardegna per giudicare le precauzioni da prendere nel 1831, dopo l'arrivo del colera in Polonia e Germania, concluse che “non v'ha per ora alcuna ragione di temere che sia il morbo per avvicinarsi siffattamente da compromettere la salute pubblica nei Reali Nostri Dominii” (Tognotti , 2000,p. 28). La studiosa elenca molti altri esempi di scetticismo dei medici sulla possibilità che il colera arrivasse in Italia, circostanza che notò pure il Leopardi in una lettera alla sorella: “L'altra sera parlai colla commissione medica mandata da Roma a complimentare il Cholèra a Parigi, la quale ci promette la venuta del morbo in Italia: predizione di cui ridono i medici di qui, perché non ci credono” (Foschi, 1983, p. 161).

Lo stesso è vero in altri paesi Europei. Morris dimostra come i giornali inglesi nel 1831, pur ammettendo che il morbo potrebbe arrivare in Inghilterra, affermano che la sua azione sarebbe più leggera:

“Another group, amongst them many medical men, assured the public that when cholera came it would not be as bad in Britain as elsewhere. The varied climate, prosperity, 'our insular position', 'the modern habits of our people', 'superior clothing, comfort and diet', and 'the easier condition of the lower orders', were all suggested as factors which would protect Britain from the full force of the epidemic.” (Morris, 1976, p. 28)

Questo commento può essere accostato ad un altro passo della narrativa, in cui Verney, sicuro di sé, spiega ai concittadini in termini geografici, climatici e razziali perché la peste non può arrivare in Inghilterra. Dopo l'esordio, “Countrymen, fear not!”, il narratore apre il discorso con un commento quasi sarcastico: non è da sorprendersi che “nelle terre ancora incolte (uncultivated wilds) dell'America” ci sia la peste, tutto sommato, la malattia è una “figlia del sole, una lattante dei tropici” e, logicamente, “perirebbe in queste temperature [inglesi]” (vol. II, p. 151-152). Poi, si sa che la malattia “beve il sangue scuro degli abitanti del sud, ma non si alimenta mai del pallido celta” e, se per caso, “alcun asiatico colpito venisse tra noi, la peste morirebbe con lui, non comunicativa e innocua”. Comunque, malgrado il disprezzo con cui ritratta gli altri, Verney è imperialisticamente fraterno, “anche se non possiamo mai sperimentare [la malattia]”, “piangiamo i nostri fratelli”, “lamentiamo e assistiamo ai bambini del giardino della terra” (Shelley, 1826, vol. II, p. 151-152)[7]. E conclude enumerando posti colpiti dalla peste, curiosamente, gli stessi che colpì il colera durante la prima pandemia: l'Impero Ottomano (Persia, Arabia), l'India (Cashmere), la Russia (Circassia, Georgia).

Questo passo dimostra come il discorso del narratore di The Last Man è in consonanza con i discorsi medico scientifici fatti all'epoca e con i presupposti ideologici che saranno adottati per i giornali pochi anni dopo. La certezza dell'isolamento, la fiducia sul clima, la protezione della razza superiore, lo sguardo paternalista agli incivili sono elementi che, dopo l'arrivo del colera nel 1832, troveremo di continuo fino alla fine del secolo, non solo in letteratura, ma anche nella retorica medica, politica, economica, ecc.

Però, nonostante tutte le previsioni, la peste arriva con forza piena in Europa e, finalmente, in Inghilterra. La popolazione è annientata e i protagonisti fuggono verso regioni più fredde dove, presumibilmente, saranno più sicuri. Partono allora per la Francia, raggiungono la Svizzera e poi l'Italia. Durante il viaggio, i personaggi muoiono uno a uno, finché Verney non diventa l'ultimo uomo di cui si ha notizie. La narrativa si chiude, allora, a Roma, da dove il narratore partirà presto alla ricerca di altri sopravvissuti. Lui percorrerà in nave il Mediterraneo e la costa d'Africa per raggiungere, finalmente, “le odorifere isole del lontano oceano Indiano”, percorrendo così l'itinerario della peste all'inverso.

4 Conclusione

Ho presentato in questo articolo alcuni dei motivi che fecero del colera la grande malattia epidemica del diciannovesimo secolo e causarono un profondo trauma culturale: la novità del morbo, l'ignoranza intorno alle sue cause, l'impotenza nel combatterle, l'inesistenza di trattamenti, la celerità dell'attacco, i sintomi repulsivi e umilianti, l'elevata letalità.

Poi, ho discusso come questi discorsi siano modellati in The Revolt of Islam e The Last Man, testi che precedono l'arrivo del colera in Europa, ma che, a mio avviso, lo discutono indirettamente. I testi sono, tra l'altro, molto simili: si presentano come una visione o una allegoria del futuro, ambientano il loro intreccio in tempi caotici, sostengono la Guerra d'Indipendenza Greca, demonizzano l'Impero Turco-Ottomano, postulano una polarità fra civiltà e barbarismo, non dubitano della superiorità “dell'Occidente”. Pure il nome dei protagonisti è simile, Laon e Leonel Verney.

Ho dimostrato come “la peste” è un elemento centrale in queste narrative e argomento che siano importanti, non solo perché sono possibilmente le due prime apparizione del colera nella letteratura europea che sono riuscito a identificare, ma specialmente perché presentano molti dei topoi che la scrittura colerica adotterà più tarde: la personificazione, reale o immaginata, del colera; il catastrofismo delle previsioni di mortalità; la fuga dall'infezione; il rapporto intimo fra guerra ed epidemia; la suposta origine “orientale”, “asiatica” e “tropicale” del morbo; lo sforzo attivo, reale o presunto, di un individuo nell'infettare gli altri; l'incapacità dei governi di controllare il contagio, alcune volte pure causandolo involontariamente; la tempestività con cui il colera colpisce; l'aspetto bluastro, rinsecchito e cadaverico delle vittime.

References

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[1]Carol Senf (2002, p. 50) afferma: “Certainly it is difficult to document the exact nature of Charlotte's influence on Bram. It is clear, however, that Charlotte Stoker was one of the first people to recognize the Gothic power of Dracula.”

[2]Shelley usa persino il paratesto per creare questa enfasi. L'opera si apre con una citazione non tradotta di Archimede: ΔΟΣ ΠΟΥ ΣΤΩ ΚΑΙ ΚΟΣΜΟΝ ΚΙΝΗΣΩ. Una versione leggermente modificata di “datemi una leva e solleverò il mondo” che qui è carica di valenza politica.

[3]Tutte le traduzioni di The Revolt of Islam all’italiano sono mie.

[4]“[…] Thither still the myriads came, / Seeking to quench the agony of the flame, / Which raged like poison thro' their bursting veins ; / Naked they were from torture, without shame, / Spotted with nameless scars and lurid blains, / Childhood, and youth, and age, writhing in savage pains.” (Shelley, 1818, p. 222, Canto Tenth, stanza XXI)

[5]“It was not thirst but madness! many saw / Their own lean image every where, it went / A ghastlier self beside then, till the awe / Of that dread sight to self-destruction sent / Those shrieking victims; […]” (Shelley, 1818, p. 223, Canto Tenth, stanza XXII)

[6]“One man in particular stood in front, his eyes fixt on the prophet, his mouth open, his limbs rigid, while his face changed to various colours, yellow, blue, and green, through intense fear. […][The prophet] looked on the peasant, who began to tremble, while he still gazed; his knees knocked together; his teeth chattered. He at last fell down in convulsions. "That man has the plague," said the maniac calmly. A shriek burst from the lips of the poor wretch; and then sudden motionlessness came over him; it was manifest to all that he was dead.” (Shelley, 1826, vol. II, p. 218)

[7]“O, yes, it would—Countrymen, fear not! In the still uncultivated wilds of America, what wonder that among its other giant destroyers, Plague should be numbered! It is of old a native of the East, sister of the tornado, the earthquake, and the simoon. Child of the sun, and nursling of the tropics, it would expire in these climes. It drinks the dark blood of the inhabitant of the south, but it never feasts on the pale-faced Celt. If perchance some stricken Asiatic come among us, plague dies with him, uncommunicated and innoxious. Let us weep for our brethren, though we can never experience their reverse. Let us lament over and assist the children of the garden of the earth. Late we envied their abodes, their spicy groves, fertile plains, and abundant loveliness. But in this mortal life extremes are always matched; the thorn grows with the rose, the poison tree and the cinnamon mingle their boughs. Persia, with its cloth of gold, marble halls, and infinite wealth, is now a tomb. The tent of the Arab is fallen in the sands, and his horse spurns the ground unbridled and unsaddled. The voice of lamentation fills the valley of Cashmere; its dells and woods, its cool fountains, and gardens of roses, are polluted by the dead; in Circassia and Georgia the spirit of beauty weeps over the ruin of its favourite temple—the form of woman.” (Shelley, 1826, vol. II, p. 151-152)

× Footnote:
[received December 15, 2021
accepted March 22, 2022]

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