Gabriele d’Annunzio orientalista. Intertestualità nella novella “Mandarina”

Issue 12 (Summer 2020), pp. 55-82

DOI: 10.6667/interface.12.2020.109

 

Gabriele d’Annunzio orientalista. Intertestualità nella novella “Mandarina”

Carlo Leo

Katholieke Universiteit te Leuven

Abstract

L’articolo descrive l’evoluzione dell’orientalismo in Gabriele d’Annunzio, dalle cronache giornalistiche fin-de-siècle su simposi giapponesizzanti alla creazione letteraria di personaggi esotici per il suo primo romanzo, secondo l’influenza esercitata dalla contemporanea letteratura di viaggio francese. Nel corso della sua giovinezza, la passione per le ceramiche orientali, le lacche e i bronzi coincide con un interesse radicato per la prosodia giapponese. L’aspetto materiale è, in effetti, di fondamentale importanza: il collezionismo dannunziano di artefatti giapponesi è un’estensione dello stesso scrittore, un veicolo per le proprie fantasie e un’ispirazione per la prosa. Alla fine del diciannovesimo secolo D’Annunzio era impiegato come giornalista presso i più importanti quotidiani romani dell’epoca, curandone la cronaca mondana. Nella novella intitolata “Mandarina”, si fa beffa dei dettami dell’alta società che imponevano il collezionismo di prodotti artistici giapponesi. L’orientalismo dannunziano è documento di un’attrazione per le qualità esotiche e fantastiche della cultura giapponese, di un interesse per la maniera simbolica attraverso cui gli artisti giapponesi rappresentavano la realtà. Seppur muovendo sempre dal pregiudizio di una fondamentale superiorità italiana e appropriandosi degli elementi giapponesi come divertissement, D’Annunzio è riuscito a confezionare una novella sagace, nella quale si intravedono già temi, personaggi e ambientazioni del primo romanzo Il Piacere. Questo contributo, in definitiva, si concentra sull’intertestualità insita nella prosa giovanile dannunziana; analizza la maniera in cui lo scrittore ha reinterpretato una selezione di fonti francesi al fine di elaborare il suo discorso orientalista, attraverso lo sviluppo dei personaggi di Mandarina e del Cavalier Sakumi.

Parole chiave: D’Annunzio, orientalismo, Mandarina, Sakumi, collezionismo, intertestualità

English Abstract

This article describes the evolution of Gabriele d’Annunzio’s orientalism, from fin-de-siècle chronicles of Japanese themed symposia to the literary creation of exotic characters for his first novel, informed by contemporary French travel literature. In his youth, the passion for oriental ceramics, lacquerware, and bronzes coincides with a deep interest in Japanese prosody. The material aspect is, indeed, most important: D’Annunzio’s collection of Japanese artifacts is an extension of the writer himself, a vehicle of his fantasies, as well as an inspiration for his prose. At the end of the 19th century, D’Annunzio was working as a journalist for the most influential Roman newspapers of the era, writing for the society page. In a short story titled “Mandarina”, he pokes fun at the dictates of high society and the craze for collecting Japanese art. D’Annunzio’s orientalism documents an attraction for the exotic and fantastic qualities of Japanese culture, an interest in the symbolic way Japanese artists represented reality. Although always operating from what he considered to be the high ground of Italian cultural superiority and appropriating Japanese elements as a divertissement, D’Annunzio succeeded in crafting a witty tale in which themes, characters, and settings of his first novel, Il Piacere, are already sketched out. This paper, ultimately, focuses on intertextuality in D’Annunzio’s early prose. It investigates how the writer reinterpreted a selection of French sources to elaborate his orientalist discourse, through the development of the characters of Mandarina and Cavalier Sakumi.

Keywords: D’Annunzio, orientalism, Mandarina, Sakumi, collections, intertextuality

Nel Giappone, nei dintorni di Kyoto abiterò
un vecchio tempio di legno,
fra i ciliegi lievi
e gli stagni coperti dai fiori del loto
e i sorrisi discreti dei bonzi.
21 luglio 1923
(D’Annunzio, 1990, p. 33)

Varcata la soglia della Prioria, la residenza che Gabriele d’Annunzio volle sulle sponde del Lago di Garda, all’interno del complesso del Vittoriale degli Italiani, il visitatore può fare esperienza dell’atmosfera di profonda religiosità in cui sono immersi tutti gli ambienti.[1] Simbologia francescana e misticismo esotico si mescolano nella volontà fattiva del suo creatore e la sterminata collezione di oggetti estremo-orientali, con le statue dei budda e le maschere rituali giapponesi, racconta della passione del poeta per la spiritualità dell’Est. Il sincretismo dannunziano fa dialogare religioni diverse nel chiuso di una stanza, attraverso l’arredamento fantasioso e l’accorta disposizione dei manufatti sacri che si accumulano nella Stanza delle Reliquie.

La ritualità del lontano oriente intrigava D’Annunzio che, con la sintesi delle varie esperienze religiose (non ultimo il culto della velocità e del pericolo), si pone il fermo proposito di mettere in comunicazione “il dio unico” con il divino che alberga nella propria anima; scriverà nel Libro segreto: “Aspiro al dio unico, cerco il dio soprano, e sento come quel che è in me divino tenda a ricongiungersi col dio inaccessibile, si sforzi di possederlo” (D’Annunzio, 2005, p. 1723). Fa incidere, infatti, sulla trabeazione che sorregge la serie di sculture lignee raffiguranti santi e angeli nella Stanza delle Reliquie: “Tutti gli idoli adombrano il Dio vivo / Tutte le fedi attestan l’uomo eterno / Tutti i martiri annunziano un sorriso / Tutte le luci della santità / fan d’un cor d’uomo il sole / e fan d’Ascesi / l’Oriente dell’anima immortale”.[2]

Però è sicuramente la Piramide degli idoli a catturare l’attenzione del visitatore, a dare manifestazione concreta alla tendenza dannunziana al sincretismo religioso: costituita alla base da una gatta addormentata insieme ai suoi cuccioli e a due coniglietti di terracotta, che rappresentano il mondo terreno; poco più sopra due cani Fo dell’olimpo cinese e, a salire, immagini di idoli e di budda, figure orientali di uccelli, fino alla Madonna in trono col Bambino (Guerri, 2015, p. 78). D’Annunzio (2005, p. 1722) scrisse nelle sue pagine mature: “Dianzi, nel Cenacolo delle Reliquie, fra i Santi e gli Idoli, fra le imagini di tutte le credenze, fra gli aspetti di tutto il Divino, ero quasi sopraffatto dall’émpito lirico della mia sintesi religiosa”.

Ispirazioni diverse e differenti suggestioni si uniscono nel gusto dannunziano, un horror vacui che guida l’arredatore d’eccezione nella scelta del mobilio e nella composizione. La Stanza delle Reliquie rappresenta, insomma, il risultato concreto del tentativo dannunziano di fusione tra oriente e occidente, dal punto di vista religioso e artistico (Mazza, 1995, pp. 92-94).

La stratificazione materiale di bibelot orientaleggianti è testimone dello studio per una fusione ideale tra repertori culturali lontani tra loro, nel tempo e nello spazio. La ricerca estetica di D’Annunzio conserva sempre una certa tendenza centripeta: l’alterità artistica, quanto più difforme e deforme, quanto più distante dal nucleo dei motivi culturali della tradizione poetica coeva, lo affascina e lo seduce; il suo desiderio prensile afferra i manufatti letterari di un altrove vagheggiato (il francese arcaico, l’Abruzzo mitico, l’oriente misterioso, la Grecia antica) e li fa propri, mescolandoli tra loro, addomesticandoli. La materialità è centrale in questo discorso: il desiderio tattile di possedere l’oggetto esotico, metterlo in dialogo con un altro pezzo per suscitare segrete associazioni mnemoniche, prelude alla composizione letteraria e anzi l’assiste. Nell’Atto di donazione del complesso del Vittoriale allo Stato italiano del 1923, D’Annunzio dichiara:

Non soltanto ogni casa da me arredata, non soltanto ogni stanza da me studiosamente composta, ma ogni oggetto da me scelto e raccolto nelle diverse età della mia vita, fu sempre per me un modo di espressione, fu sempre per me un modo di rivelazione spirituale, come un qualunque dei miei poemi, come un qualunque dei miei drammi, come un qualunque mio atto politico o militare, come una qualunque mia testimonianza di dritta e invitta fede. (Ministero di Grazia e Giustizia, 1937, p. 3275)

L’elemento materiale veicola l’espressione artistica, rivela le nascoste complicità tra lo spirito e le cose: “D’Annunzio qui espone un’ideologia dell’arredamento che concepisce la casa e gli oggetti quali portatori di significato metafisico, quali mediatori fra le persone che vivono in questi ambienti e una realtà soprannaturale basata sulla memoria, la sensibilità e la sensualità” (Hendrix, 2008, p. 295).

Nel 1884, poco più che ventenne, già scriveva sulla Tribuna:

La rassomiglianza curiosa dei riti buddisti con i riti della Chiesa romana è causa di alcune singolarità figurative che alla prima vista generano stupore. Infatti voi vedrete, in mezzo ai mostri e a tutta la grottesca umanità elefantiaca dei vasi, una figura di Satzuma, dolcissima, in un atteggiamento di madonna cattolica, china il capo pudicamente, piegata su’l petto le mani. O voi vedrete in un foukousa un gran vecchio adorante che tiene levati li occhi verso un’apparizione di santo cinto dall’aureola cristiana. (D’Annunzio, 1996, p. 213)

D’Annunzio annota queste riflessioni in un periodo fondamentale per la penetrazione del gusto orientale, soprattutto giapponese, nel contesto culturale italiano. Sul finire dell’Ottocento, infatti, diventa popolare una maniera esotica nell’arredamento dell’abitazione signorile a Roma bizantina, città che D’Annunzio frequenta come giovane cronista di episodi mondani. Le garçonnière straripano di statuette d’avorio, figurine di giada, kimono e ukiyo-e. L’oggettistica estremo-orientale colora di uno svagato esotismo tante pagine dell’esordiente giornalista, ma diventa materia di prosa d’arte quando D’Annunzio si cimenta con la novellistica.

1 Scrittura e riscrittura dannunziana: la novellistica mondana del periodo romano

Nelle pause dalla cronaca mondana, che lo consacravano cantore della Roma umbertina e gaudente, D’Annunzio licenzia qualche racconto ironico, si prova con le parabole e le novelle. Scrive fiction, insomma, ma sullo sfondo continuano a muoversi i protagonisti dell’haute société che suole frequentare, bozzetti di personaggi descritti talvolta con bonaria indulgenza o castigati con sferzante dissacrazione.

Federico Roncoroni raccoglie nel 1981 le più significative prove di prosa di questa stagione sotto il titolo di Favole mondane; tentativi simili di compendiare la prosa dannunziana del periodo romano, distillata sui giornali, erano apparsi già all’inizio del secolo, D’Annunzio vivente, con feroce risentimento del poeta che aveva “protestato contro le pubblicazioni che si vanno facendo delle sue opere anteriori”, come si premura di segnalare l’editore di certe Parabole e novelle dannunziane nel 1914, che infine si giustifica asserendo che “esse valgono sempre più alla luminosa conoscenza dello scrittore, ch’è più grande della contemporanea letteratura italiana” (D’Annunzio, 1914, p. 15).

La curatela di Roncoroni accoglie una composita raccolta di racconti sceneggiati, racconti in forma epistolare, monologhi, recuperi di leggende popolari, che mostrano le sorprendenti incursioni dello scrittore nei territori del fantastico e la sua frequentazione con la nuova sensibilità per l’oriente (Reim, 2013, pp. I-VIII). Appaiono tra il 1884 e il 1888 sul Capitan Fracassa e sulla Tribuna e costituiscono un’eccezione nel panorama della produzione dannunziana per la loro leggerezza ironica e la facilità di fruizione, a beneficio certamente dei lettori civettuoli di cronaca mondana, come nota Roncoroni nell’introduzione alla curatela (D’Annunzio, 1981, pp.5-9).

Qui D’Annunzio si esercita al meglio delle sue possibilità inventive, dando prova di una maturità artistica cui darà piena espressione nel primo romanzo, Il Piacere, del 1889. Abbandona il taccuino del giornalista, pur senza deporre i modi del cronista mondano, e si lascia andare al suo estro creativo. Ancora Roncoroni:

La differenza tra la cronaca di attualità dei normali pezzi giornalistici e la cronaca inventata delle Favole, peraltro, agli occhi del lettore è minima. Spesso, infatti, le cronache reali sono così favolose da sembrare inventate, quasi un’ironica mistificazione, e spesso, di converso, le Favole mondane sono così realistiche da sembrare cronache di attualità. (D’Annunzio, 1981, p. 7)

Non è da sottovalutare la dimensione letteraria presente in questi racconti. Vi si possono rintracciare, in bozzetto, i personaggi del futuro romanzo: svetta Roma, le sue piazze, le scale, le ville, le donne, gli amori, tutto ciò che confluirà nel Piacere, vera e propria summa del periodo romano di D’Annunzio. Il Piacere si configura, infatti, come ripresa di tanti materiali prodotti negli anni romani, apparsi sulle colonne dei giornali, e le Favole mondane furono spesso la fucina dove si approntarono i materiali per la riscrittura. Nell’introduzione alla raccolta mondadoriana degli scritti giornalistici del periodo romano, Annamaria Andreoli sostiene che: “Il cronista darà senz’altro manforte al narratore affinché si configuri in tutto e per tutto quale artifex additus artifici” (D’Annunzio, 1996, p. XXV).

Di seguito si metteranno in luce, attraverso l’analisi di una novella delle Favole mondane, le strategie di composizione che governano il trattamento dell’esotico nelle pagine romane di D’Annunzio e la loro ripresa nel Piacere. Si confronterà la descrizione del Cavalier Sakumi nella favola intitolata “Mandarina” con quella che si fa, dello stesso personaggio, nel successivo romanzo Il Piacere. Non si trascurerà di rintracciare le fonti francesi di questo racconto esotico, ma pure si cercherà di dimostrare come D’Annunzio abbia plasmato la fisionomia e il carattere di Sakumi a partire dall’osservazione diretta del ministro giapponese Fujimaro Tanaka, di cui racconta in un articolo sulla Tribuna. Il reimpiego di pagine di cronaca mondana nel tessuto dei grandi romanzi non è un fenomeno trascurato dalla critica, che ha cominciato a dedicare attenzione agli scritti giornalistici dell’abruzzese proprio a partire dal confronto con la produzione letteraria successiva: un D’Annunzio scrittore della propria scrittura.

2 Una favola mondana d’ispirazione giapponese

“Mandarina” è una favola mondana che appare per la prima volta sul Capitan Fracassa il 22 giugno 1884, a firma Gabriele D’Annunzio (1981, pp. 11-20). L’autore, dopo l’apparizione nel quotidiano, ne prevede la pubblicazione nel volume di novelle I Pantaleonidi che propone all’editore Treves nel 1885. L’Illustrazione italiana tramanda questa lettera, tra le altre selezionate da Mimì Mosso entro il voluminoso carteggio D’Annunzio-Emilio Treves, che ne illumina il progetto editoriale:

Caro Signore,
Ho qui la Sua lettera, lo non le dissi né il titolo del libro né il contenuto, perché sapevo che alcune settimane fa la signorina Matilde Serao ne aveva parlato particolarmente a Lei o a suo fratello
Il libro si compone di novelle in prosa ed è intitolato I Pantaleónidi
I titoli delle novelle sono questi:
I. I Pantaleónidi; II. Annali d’Anna; III. L’incantesimo; IV. La morte di Sancio Panza; V. Villa Borghese; VI. Mandarina; VII. Mungià; VIII. La guerra del Ponte; IX. San Laimo navigatore; X. Idillio notturno; XI. Congedo
Le manderò il manoscritto appena Ella mi darà una risposta
Le novelle, per la massima parte, sono state pubblicate nel «Fanfulla domenicale»
Cordiali saluti
Dev.mo Gabriele d’Annunzio
Roma, il 3 di marzo 1885
(Mosso, 1923, p. 512)

Le esose richieste di D’Annunzio, che pretende ben 1500 lire da pagarsi alla consegna del volume, fanno fallire l’accordo con Treves il quale commenta, risentito: “Vedo che con lei i rapporti sarebbero molto difficili, avendo acquisito idee molto erronee sul movimento letterario in Italia. Le rimando quindi le sue novelle” (Mosso, 1923, p. 513). Eppure saranno i torchi di Casa Treves a stampare il fortunato primo romanzo dannunziano nella primavera del 1889.

“Mandarina” non è presente nel volume che esce un anno dopo, con il titolo San Pantaleone, presso l’editore Barbera di Firenze. Ivanos Ciani (1975, p. 77) afferma che l’esclusione dalla raccolta fosse dovuta al fatto che l’argomento mondano della novella poco aveva in comune con il tono delle altre. “Mandarina” si attesta, comunque, come la più compiuta espressione dell’interesse dannunziano per l’esotismo giapponese che, sull’esempio francese, si diffondeva in Italia in quegli anni. Incarna un aspetto importante del complesso fenomeno del japonisme, che fu caratteristico della scrittura di Vittorio Pica: l’evasione dalla vita ordinaria in un mondo alternativo, fantastico e poetico. La mescolanza dei caratteri esotici, senza troppa cura per le peculiarità nazionali in riferimento ai motivi artistici, è una prassi dell’orientalismo del tempo, evidente pure qui quando D’Annunzio prende per giapponese il tema del mandarino, caratteristico invece della Cina (Muramatsu, 1996, p. 28).

Mandarina è il soprannome della marchesa Aurora Cardinale, vedova romana, svampita e sognante. In un ambiente arredato alla giapponese, tiene ogni sabato il tè delle cinque, a cui partecipano i nomi più chiari dell’aristocrazia tiberina. Gli aromi intensi della bevanda giapponese accendono gli spiriti corrotti dei convenuti che, schermati dai paraventi floreali, si abbandonano al pettegolezzo e al corteggiamento raffinato. Mandarina assume pose giapponesi ed indossa kimono preziosi, si perde nelle sonorità meliche dei versi orientali e s’innamora di un tale cavalier Sakumi, segretario giapponese d’ambasciata, il quale tutto ignora dei costumi sofisticati del flirt ricercato dell’alta società romana. La marchesa instaura col giapponese un gioco elegante di seduzione, le cui regole cortesi sfuggono al cavaliere che, impacciato, spezza l’incantesimo d’amore “con una goffa dichiarazione di disponibilità erotica, sin troppo esplicita” (Lamberti, 1985, p. 307), borbottando alla fine del racconto in un pessimo francese: “Je voudrais bien coucher avec vous, Madame!” (D’Annunzio, 1981, p. 20)

Non sono sfuggite, ai critici, le attinenze con la prosa successiva, tanto che si può parlare per “Mandarina” di uno studio di romanzo. Il cavaliere Sakumi sarà tra i personaggi del Piacere, ospite in casa della Marchesa D’Ateleta. Roberto Forcella (1928, pp. 58-60) cataloga perciò la favola come: “Importantissima prosa, da considerare come un capitolo extravagante del romanzo Il Piacere. Appaiono per la prima volta il nome, il linguaggio barbarico e la spiritualità singolarissima del Cavaliere Sakumi, segretario della Legazione giapponese”.

Converrà, allora, analizzare l’evoluzione del personaggio Sakumi dalla favola mondana alle pagine del Piacere, che faccia da esempio per comprendere meglio il procedimento della riscrittura dannunziana. Si analizzerà, di contro, pure la figura di Mandarina, la marchesa Aurora Cardinale: il ritratto muliebre dannunziano è testimonianza in prosa della percezione di un Giappone al femminile, sensuale sogno esotico che evoca nella mente dei lettori della Roma umbertina la licenziosità dei costumi e l’affettazione dei modi. La descrizione della marchesa permette una lettura delle modalità attraverso cui il discorso orientalista rende fruibile il Giappone ai lettori di quotidiano nell’Italia di fine Ottocento. Partendo dall’analisi del ritratto femminile dannunziano, si possono evidenziare le dinamiche interpretative che l’Europa letteraria adotta per la comprensione dell’oriente nel momento storico in cui il Giappone si apre al mondo. Un’indagine accurata delle fonti letterarie di cui D’Annunzio si serve per la stesura di questa favola mondana, che saranno il modello pure per tante pagine del Piacere, renderà esplicito il contesto culturale entro cui si muovono le prime relazioni italo-giapponesi.

3 Orientalismo dannunziano: Sakumi e Mandarina attraverso le fonti francesi

L’origine della descrizione del personaggio del cavalier Sakumi può, senza difetto, essere rintracciata in un breve schizzo del ministro giapponese Fujimaro Tanaka, che D’Annunzio (1996, pp. 197-204) realizza nell’articolo “Cronica del fiore dell’Oriente”, apparso sulla Tribuna nel 1884. Un personaggio che si muove, quindi, dalla cronaca mondana, alla favola mondana, poi al romanzo:

Intanto, nel Piacere in gestazione, il ministro nipponico della cronaca dannunziana apparsa nella Tribuna veniva tramutandosi in quel cavaliere Sakumi segretario della Legazione giapponese che in casa d’Ateleta prende parte al pranzo in cui s’incontrano per la prima volta Elena e Andrea (Trompeo, 1943, p. 187).

D’Annunzio (1996, pp. 197) tratteggia, del ministro, un rapido acquerello colorato: un ometto giapponese buffo e caricaturale, spogliato dei segni della nobiltà che connotano l’aristocrazia nipponica (le spade alla cinta), “tutto umiliato nel nero abito europeo”. La levatura dell’ospite orientale, comunque, doveva essere tutt’altro che trascurabile se, come D’Annunzio (1996, pp. 197) riferisce, egli “fu ricevuto da S. M. il Re d’Italia con molta pompa di cerimonie, nella sala del Trono”. Fujimaro Tanaka era infatti un ex-samurai di Nagoya, cui venne affidato l’incarico, nel gran fervore Meiji di rinnovamento per la società giapponese, di progettare il Primo Piano Nazionale per l’Istruzione nel 1873, in quanto nuovo ministro (Duke, 2009, p. 6). Il suo lavoro prendeva avvio dalla diretta conoscenza del sistema educativo occidentale, che si voleva confrontare con quello tradizionale giapponese, per rilanciare quest’ultimo in un contesto di rinnovata modernità. Tanaka partecipò, infatti, alla Missione Iwakura, importante viaggio diplomatico intorno al mondo organizzato dal governo Meiji, per lo studio della cultura e dei sistemi amministrativi dei Paesi occidentali. La missione partì da Yokohama il 23 dicembre del 1871, alla volta degli Stati Uniti e dell’Europa. La delegazione giapponese visitò anche l’Italia ed è attestata la curiosità dei nipponici per le architetture delle città d’arte italiane, come per l’organizzazione dei giardini, così diversi da quelli a cui erano abituati (Iwakura, 1992).

Non era quindi, quella di cui ci parla D’Annunzio nel 1884, la prima visita italiana di Fujimaro Tanaka. Si può ipotizzare che il ministro si sia arrischiato, per cortesia, a pronunciare pubblicamente qualche breve frase in italiano e che D’Annunzio (2014, p. 52) se ne sia ricordato quando ha descritto nel Piacere la parlata di Sakumi come “lingua barbarica, appena intelligibile, mista d’inglese, di francese e d’italiano”.

Questa “Cronica del fiore dell’Oriente” si apre con l’incipit orientaleggiante: “Salute a O Tsouri Sama, a Sua Signoria la Gru!” (D’Annunzio, 1996, pp. 197), che è la chiave di volta per la comprensione del gioco di riscrittura dannunziano per quanto concerne il japonisme.[3] Individuata la fonte di questa singolare citazione, avremo rintracciato il fondamentale tramite materiale tra D’Annunzio e il Giappone. L’ intermediario è un testo francese, La maison d’un artiste di Edmond de Goncourt, che “è il più celebre dei viaggi intellettuali all’interno della propria casa, costruzione e materializzazione al tempo stesso dell’io segreto del proprietario” (Lamberti, 1985, pp. 307-308). In quest’opera viene descritta la casa dell’autore ad Auteuil, nella periferia parigina, con dettagliate descrizioni degli arredi e delle collezioni artistiche, arricchite da divagazioni sul profilo dei singoli artisti. Il japonisme di Goncourt è noto in tutta Europa, D’Annunzio (1996, p. 160) gli riconosce un ruolo attivo nella promozione dell’arte giapponese all’interno di un articolo giornalistico intitolato “Letteratura giapponese”, in cui il cronista s’improvvisa erudito conoscitore dell’intera storia letteraria della Terra dei Crisantemi.

Nel libro di Goncourt, al capitolo destinato al vestibule della casa, l’autore descrive i ricami che adornano l’ingresso: tessuti di seta provenienti dal Giappone chiamati fusha o foukousa, ricamati con un disegno che raffigura delle gru, che sono per i giapponesi messaggeri celesti a cui ci si rivolge con l’appellativo: “O Tsouri Sama, Sa Seigneurie la Grue” (Goncourt, 1881, p. 7), proprio come nell’incipit dell’articolo dannunziano sulla Tribuna. La studiosa dannunziana Mariko Muramatsu segnala, ad avvalorare questo rapporto di filiazione diretta, un errore significativo presente in entrambi i testi: “La citazione da Goncourt è evidente, tanto più che si avvale della stessa traslitterazione alla francese di una proposizione giapponese gravata da un errore – Tsouri, piuttosto che Tsourou (in giapponese la gru è tsuru)” (Muramatsu, 1996, p. 23).

A firma dell’articolo compare Shiun-Sui-Katsu-Kava, fortunato pseudonimo del D’Annunzio cronista, che D’Annunzio scova pure tra le pagine goncourtiane. Nella presentazione degli album contenuti nella sua casa-museo, Goncourt alterna, alla descrizione dei motivi artistici, informazioni circa episodi sulla storia dell’arte giapponese. Si sofferma in particolare sul pittore “O-kou-saï”, autore di tre degli album della sua collezione. Una noticina messa a chiosare parte del testo ci svela l’arcano:

D’après une curieuse note de Bergerat, sur des indications fournies par Narushima, un des Japonais venus en France, l’année de l’exposition, Oksaï, O-kou-saï, Fokkusaï, dont le vrai nom serait Hottéyimon-Miuraya, serait né à Yedo au milieu du XVIIIe siècle, aurait travaillé dans l’atelier de Shiun-Sui-Katsu-Kava, puis chez Shiun-Shivo, et aurait débuté par une suite des Jardins de Yedo. (Goncourt, 1881, p. 218)

Il grande Hokusai avrebbe quindi lavorato nello studio del maestro Shiun-Sui-Katsu-Kava, o quantomeno così riporta Goncourt. Muramatsu, con precisione, anche qui interviene a ricostruire la lezione originale: “In realtà il primo maestro di Hokusai si chiamava Shiunsho Katsukawa, ma curiosamente sia D’Annunzio sia Goncourt hanno usato la stessa trascrizione sbagliata Shiun-Sui, facendo un identico uso di maiuscole e trattini” (Muramatsu, 1996, pp. 24-25). Questo nome proprio giapponese, poi, doveva essere già familiare a D’Annunzio, perché nel periodo in cui era collaboratore del Fanfulla della Domenica, Luigi Capuana pubblica una lunga recensione di un romanzo giapponese dello scrittore Tamenaga Shunsui, Les fidèles ronins (Salierno, 1985, p. 11). In “Mandarina” D’Annunzio (1981, p. 14) scrive che la marchesa Aurora Canale sognava il Giappone lontano “bevendo piccole tazze di the o leggendo i romanzi di Tamenaga Siounsoui e di Kiokutei”. Di Tamenaga Shunsui proprio nel 1884 era stato pubblicato in diciassette fascicoli dall’editore Perino di Roma il romanzo I cavalieri della morte, che ha introdotto così il topos consueto della geisha e samurai giapponesi (Ciapparoni La Rocca, 2003, p. 283).

Non è arbitrario, quindi, accreditare il testo goncourtiano come fonte della maggior parte delle citazioni dannunziane dei nomi e delle parole giapponesi: lo tradiscono le trascrizioni alla francese e gli errori comuni. La fisionomia di Mandarina è costruita attingendo fedelmente alle immagini delle donne giapponesi che Goncourt riporta, queste figurine femminili dotate di grazia innata e modi fanciulleschi:[4]

La femme japonaise, les anciens albums la représentent le front remarquablement bombé, les sourcils semblables à un trait de pinceau, l’ouverture de l’œil tout étroite et extrêmement fendue avec une prunelle coulée dans un coin sous la mince paupière, un petit nez courbe d’une très grande finesse, une bouche toujours entr’ouverte dans le dessin du peintre, comme une bouche d’enfant, et l’ovale long, long, long, mais parfaitement régulier. (Goncourt, 1881, pp. 235-236)

Un paravento, dove alcune cicogne bianche si nascondevano tra i giaggioli d’acqua violacei, faceva da fondo alla singolare bellezza di lei, a quell’ovale magro dove il naso lievemente aquilino era tagliato con estrema finezza e l’apertura dell’occhio lievemente obliqua mostrava la pupilla verso l’angolo al battito dei cigli tenuissimi. […] Restava spesso così, con nelli occhi una espressione di stupore ingenuo, con la bocca semiaperta come quella di un poppante, con una ciocca di capelli nerissimi serpeggiante sulla tempia, tentando di allungare ancora più l’ovale del suo viso. (D’Annunzio 1981, pp. 11-14)

La descrizione giapponesizzante di Mandarina permette a D’Annunzio di dotare la sua pagina di un erotismo discreto, una sensualità delicata, che anima le dettagliate descrizioni dei simposi aristocratici che avvengono nei salotti della marchesa Aurora Cardinale. La moda del tempo detta il Giappone e D’Annunzio cede al fascino molle del capriccio esotico. Ben prima della percezione di un Giappone al maschile che negli anni ’30, in Teneo Te Africa,D’Annunzio (2005, p. 2556) definirà “acciaiato” in seguito all’invasione della Manciuria, esiste nell’immaginario del poeta la vaga percezione di un Paese che assume tutte le caratteristiche femminili della disponibilità erotica e della sottomissione.

Rimando all’articolo “Giapponeserie dannunziane” di Maria Mimita Lamberti (1985) e all’ampio saggio di Mariko Muramatsu (1996) intitolato Il buon suddito del Mikado, per una disanima accorta dei prelievi dannunziani dal testo goncourtiano. Ciò che mi preme, qui, è segnalare un’altra fonte delle riprese dannunziane, sfuggita finora all’occhio critico. Si tratta di un libro di Auguste Wahlen, pseudonimo di Jean-François-Nicolas Loumyer, libraio e stampatore di Bruxelles. Faccio riferimento al volume dedicato all’Asia per la raccolta di saggi Mœurs, usages et costumes de tous les peuples du monde, d’après des documents authentiques et les voyages les plus récents del 1843; si tratta di un poderoso sforzo enciclopedico che mira a descrivere, entro i cinque continenti, gli insediamenti umani e i caratteri delle popolazioni.

In tanti passaggi della novella, D’Annunzio utilizza parte del repertorio di motivi desunti dalla lettura del libro di Whalen. Le pareti della stanza da tè in cui è ambientata la favola sono quasi viventi di vita vegetale, grazie al reimpiego della terminologia botanica ricavata dalla sezione relativa alla flora giapponese del trattato geografico:

La flore du Japon est une des plus riches que l’on connaisse. Les forêts et les haies étalent les roses du Trocbaki; le sotoouki donne une fleur semblable à celle du lis, le momidsi se couvre de magnifiques fleurs rouges (Whalen, 1843, p. 541).

Nella sala, al chiaror delle lampade sorrette dalle quattro gru di bronzo, la flora e la fauna parietali ebbero una gioconda risurrezione di vita. Da ogni parte, uccelli posati su rami di rose del Trocbaki, uccelli svolazzanti sui gigli bianchi del sotoouki, uccelli dormenti sotto i grandi calici rossi del momidsi. (D’Annunzio, 1981, p. 19)

Il volto di Mandarina, per la consuetudine con le cose giapponesi, ha preso a somigliare a quello di una geisha e la trasmutazione, da nobildonna romana a principessa nipponica, si fa concreta in questa favola mondana. La descrizione dannunziana della marchesa trae spunto ancora da Wahlen:

Les Japonais ont dans leur organisation tous les traits caractéristiques de la conformation mongole, y compris la position oblique de l’œil qui s’éloigne plus de la forme ronde que chez aucun autre peuple; oblong, petit, enfoncé dans la tête, il paraît clignoter continuellement. (Whalen, 1843, p. 548)

Ed era ben curiosa quest’incarnazione del tipo feminino mongolico in una donna occidentale [...]. L’apertura dell’occhio lievemente obliqua mostrava la pupilla verso l’angolo al battito dei cigli tenuissimi. (D’Annunzio, 1981, p. 12)

La descrizione del volto di Mandarina, “quell’ovale magro dove il naso lievemente aquilino era tagliato con estrema finezza” (D’Annunzio, 1981, p. 12) potrebbe essere influenzata anche dalla lettura del libro L’empire Japonais di Léon Metchnikoff, testo da cui D’Annunzio solitamente attinge quando tratta di giapponeserie (Leo, 2019, pp. 83-88). Vi si legge infatti che la conformazione fisica degli abitanti giapponesi delle isole Ryukyu è caratterizzata “par l’ovale très-allongé et assez régulier de leurs visages” e più oltre che “leurs yeux ne sont que légèrement obliques et presque jamais bridés", mentre il naso "est surtout d’une forme particulière: très-étroit et plat dans sa partie supérieure, il forme une proéminence considérable à l’endroit où les cartilages se joignent aux os nasaux, ce qui lui donne un faux air de nez aquilin" (Metchnikoff , 1881, p. 169).

Il contrasto tra la composta, quasi spirituale, grazia di Mandarina e la caratura grottesca del grugno del cavalier Sakumi è il nodo problematico dello sguardo orientalista dannunziano, che esalta l’esotico in Mandarina fintanto che è belletto superficiale, vezzo che tinge di vaghezza la bellezza europea della marchesa. Il godimento dell’alterità deve necessariamente passare attraverso le modalità interpretative classiche del bello occidentale. Anche Wahlen si compiace della bellezza delle donne giapponesi di buona famiglia, con la loro bianchezza quasi europea per la consuetudine a restare in casa come la stessa Mandarina, di contro al colorito giallastro degli uomini giapponesi e di Sakumi:

Les écrivains hollandais vantent avec beaucoup de complaisance la beauté des jeunes femmes; celles de distinction, en s’exposant rarement à l’air sans être voilées, conservent le teint aussi blanc que les Européennes. (Whalen, 1843, p. 548)

Quindi viveva quasi sempre nella casa, per circondarsi dell’aria appropriata alla delicatezza delle sue grazie, per emergere più vivamente da un fondo pittorico di tinte armoniose; poiché la luce della strada brutale toglieva a quella sottilissima architettura feminea ogni incanto. (D’Annunzio, 1981, p. 14)

Per converso, il cavaliere Sakumi incarna in modo quasi caricaturale l’opposto dell’immagine finora evocata. Mandarina si innamora di Sakumi soltanto perché la sua più ardente aspirazione è di vivere un amore giapponese. Il cavaliere perde ogni connotazione reale agli occhi della dama e rappresenta “un Oriente vaghissimo di poesia, di amori sognati, di paesaggi dell’immaginazione” (Lamberti, 1985, p. 307). Ilvano Caliaro (1991, p. 51 n.4) rileva che Sakumi, in “Mandarina” e nel Piacere, è modellato sul Marquis de Chou-Hang-Li dell’Initiation sentimentale di Péladan.

Possiamo rintracciare una serie di eloquenti richiami intertestuali, per quanto riguarda la descrizione del cavaliere Sakumi, che prima assume i tratti del ministro Tanaka nella “Cronica del fiore dell’Oriente”, poi compare nella novella “Mandarina” come segretario d’ambasciata, e infine si presenta tra i commensali in casa D’Ateleta nel Piacere.[5]

Il ministro Fujimaro Tanaka è “gialliccio come un avorio di tre secoli” mentre il Sakumi di “Mandarina” ha “il colorito giallognolo della razza mongolica”; “giallognolo” è anche nel Piacere, oltre che “piccolo di statura”. In Metchnikoff (1881, p. 173) si legge infatti: “Le teint est jaunâtre chez les hommes, blanc et rosé chez les femmes”.

Tanaka ha gli “occhi lungamente obliqui” e un sorriso che “gli faceva battere rapidamente le palpebre”, contrappunto perfetto a “li occhi obliqui, oblunghi, piccoli, profondati nel capo, sparsi di venature sanguigne, parevano ridere tra il continuo battere delle palpebre” in “Mandarina”, e “gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo” nel Piacere. Si può ragionevolmente supporre che questa sia una ripresa da Wahlen (1843, p. 548) che descrive il tipo d’occhio giapponese: “il paraît clignoter continuellement”.

Il buon suddito del Mikado, il ministro, si produceva in mille inchini “sorridendo d’un infaticabile sorriso”, mentre in “Mandarina” Sakumi, “alla meraviglia ilare delli interlocutori contrapponeva il piccolo riso delle pupille sfuggenti nelli angoli delle palpebre, contrapponeva l’ironia inconsapevole di tutti i tratti della faccia; così che alcuni credevano quasi d’essere burlati e se ne vendicavano con malignità”. Nel Piacere, infine, si dice che egli “pur nella sua goffaggine, aveva un’espressione arguta, una specie di finezza ironica agli angoli della bocca”, “reiterando i sorrisi e gli inchini”.

Sakumi è “un buddhista inclinato naturalmente alla pinguedine”, “molto coltivava i piaceri della gola” in “Mandarina”. Anche nel Piacere si dice che aveva “il corpo troppo grosso in paragon delle gambe troppo sottili”. A causa della consuetudine con i vizi dell’Occidente e la frequentazione delle amicizie di Mandarina, “Sakumi da prima era caduto in uno stupidimento grave; poi a poco a poco la sua buona natura voluttuaria si era andata risollevando tra mezzo alle nebbie dell’intelligenza ottusa”, “viveva in una specie di ebetudine sonnolenta, prosperando nell’esercizio delle funzioni vegetative, espandendosi di tanto in tanto in una mimica corporale che pareva imitata dai disegni classici di O-Kou-Saï”. La scaltrezza gli fa difetto anche nel Piacere e la sua figura caricaturale risalta negativamente nel raffinato contesto aristocratico; lo sguardo del delegato si fissa a scrutare la presenza di Elena Muti, femme fatale del romanzo: “Fino a quel momento, egli aveva guardato la duchessa di Scerni, con l’espressione statica d’un bonzo che sia nel cospetto della divinità. La sua larga faccia, che pareva uscita fuori da una pagina classica del gran figuratore umorista O-Kou-Saï, rosseggiava come una luna d’agosto, tra le catene de’ fiori”, ecco “l’amorosa contemplazione del daimio travestito”, “con gli occhi imbambolati”. La Maison è certamente il modello di riferimento di D’Annunzio anche in questo passo. Si leggano certe pagine in cui Goncourt (1881, pp. 220-221) descrive i motivi grotteschi e buffi che l’arte di Hokusai riproduce: “Dans la figuration rigoureuse, dans le copie fidèle de ses hommes et de ses femmes O-kou-saï, apporte un grossissement comique qui n’est pas, à proprement parler, caricatural, mais plutôt humoristique. L’artiste, si l’on peut dire, a la réalité ironique”.

La scarsa dimestichezza di Sakumi con la lingua degli interlocutori occidentali è il pretesto per la risata liberatoria del lettore nella chiusa della favola mondana: “ronzavano nel suo cervello, tra le sonorità della lingua nativa, alcune centinaia di parole francesi, confusamente. E come egli non era ancor giunto ad afferrare il significato preciso di ciascun suono, spesso gli accadeva di esprimersi con modi niente affatto rispondenti al caso”. D’Annunzio descrive un “balbettamento sconnesso”, quando Sakumi “oscillava stranamente in una confusione di frasi falliche, di perifrasi pudibonde”, l’iconica frase finale viene pronunciata “con uno sforzo di sillabazione grottesco”. Nel Piacere, si è detto, “l’Asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d’inglese, di francese e d’italiano”.

L’inviato giapponese, nella cronaca, ha un portamento stravagante, è “tutto umiliato nel nero abito europeo”, “non portava alla cintola le due sciabole, segno di nobiltà nell’Imperio del Sol Levante”. L’uomo di cui Mandarina s’è invaghita “compariva egli nelle sale, a lato dell’ambasciatore principe, camminando colla punta dei piedi in dentro come se una stretta legatura gli fasciasse le anche”; D’Annunzio ne denuncia l’imbarazzo quando scrive che “il cavaliere buddhista si avanzò co’l suo passo malfermo […]. Ahimè, egli non portava un fulgido vestimento di daimio”. Andrea Sperelli, protagonista del Piacere, registra mentalmente i movimenti del nipponico: “camminava colle punte de’ piedi in dentro, come se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne’ panni d’un tavoleggiante occidentale […]. A mezzo del salone s’inchinò. Il gibus gli cadde di mano”. A questo riguardo, Wahlen commenta con una curiosità di carattere esotico, indicando il motivo per cui l’osservatore occidentale percepisce come sgarbato il modo di camminare dei giapponesi; tutta colpa delle calzature infradito, il cui peculiare modo di aderire al piede impedisce la scioltezza dei movimenti:

Dans les maisons, l’unique chaussure des Japonais se compose de chaussons. S’ils sortent, ils mettent des souliers par-dessus, mais de l’espèce la plus incommode. Ce ne sont guère que des semelles de paille, de roseau ou de bois, maintenues sous le pied par une petite cheville perpendiculaire qui traverse une ouverture faite exprès dans le chausson, et passe entre le pouce et le premier doigt du pied. L’impossibilité de soulever en marchant un pied ainsi chaussé explique suffisamment la gaucherie des Japonais dans leurs mouvements. (Wahlen, 1843, p. 576)

Il nipponico è oggetto di risa, si muove impacciato in abiti europei che gli ostacolano il movimento, spogliato degli attributi di nobiltà (il daimio, il signore feudale a servizio dello shogun, doveva portare due spade in rappresentanza del potere e della classe sociale), privato dei simboli guerreschi e dell’armatura temibile. D’Annunzio ironizza e si figura il giapponese come un “crostaceo mostruoso” in quell’usbergo colorato. La connessione tra personaggi odiosi e metafore animali è di norma nel D’Annunzio del Piacere (Turchetta, 1993, p. 132). Le qualità bestiali del cavaliere, descritto in termini di natura, contrastano con quelle dei personaggi dell’aristocrazia tiberina, descritti in termini di arte e paragonati a quadri celebri e statue famose, secondo la tecnica dell’ecfrasis (Eskelinen, 2006). Deborah Collen Fisher (1998, pp. 58-59) sostiene che nell’opera dannunziana sia radicato un credo “in the superiority of Italian society over other races, a view enhanced for D’Annunzio by Darwin’s findings and Nietzschean philosophy […]. Elements of this philosophy are apparent in the portrayal of the oriental character Cavaliere Sakumi”.

La descrizione di Sakumi fu poco apprezzata dai lettori giapponesi; già nel 1909 Mori Ōgai scrisse: “Sakumi fa la figura dello stupido” e il letterato Sei Itō lo liquidò come “detestabile” (Hirashi, 1996, p. 36). Noriko Hirashi afferma che la figura del giapponese nel Piacere sia stata riprodotta a partire da un’ispirazione francese ulteriore rispetto alla Maison, si tratterebbe di Madame Chrysanthème di Pierre Loti, testo fondamentale per la diffusione di una certa immagine del Giappone in Europa alla fine dell’Ottocento.[6]

Si è detto che Sakumi è paragonato nel Piacere ad un “bonzo”, che fissa la divinità in estasi mistica; Loti (1888, p. 184) scrive proprio di un simile bonzo esotico: “Les bonzes assis en théories immobiles, dans la sanctuaire étincelant d’or qu’habitent les divinités, les chimères et les symboles”. Per quanto pertiene, poi, l’aspetto grottesco di Sakumi, si può fare riferimento ad un’altra opera di Loti: “Un bal à Yeddo” in Japoneries d’Automne. Non è altro che l’affresco di un evento mondano giapponese nell’era Meiji, testimoniato da un osservatore europeo, i cui convitati vestono all’occidentale. Loti ritiene che i giapponesi in abito lungo, alla foggia europea, possano apparire eccessivamente imbellettati e alquanto baroccheggianti: “Vaguement ils me rappellent certain général Boum[7] qui eut son heure de célébrité jadis. Et puis, l’habit à queue, déjà si laid pur nous, comme ils le portent singulièrement!” (Loti, 1889, p. 88)

Endymion Porter Wilkinson scrive che, nei lavori di Loti, i giapponesi sono circondati da un alone di decadenza, contraddittori, pronti a trarre in inganno l’incauto visitatore, che pure scimmiescamente imitano nei costumi occidentali: “The Japanese are mercilessly caricatured as inferior yellow people: they are small, fragile, and feminine” (Wilkinson, 1982, p. 44)

I saggi raccolti in Japoneries d’Automne furono inclusi nella rivista La Nouvelle Revue nel 1887 e nel 1888. Questi articoli di Loti, ipotizza Hirashi, potrebbero avere attirato l’attenzione di D’Annunzio, lettore accorto della rivista: “Absorbant l’image des Japonais de Loti, D’Annunzio créa Sakumi, grotesque et comique” (Hirashi, 1996, p. 37)

C’è poi un altro curioso dettaglio su cui vale la pena di indagare: il modo di camminare di Sakumi, con le punte dei piedi rivolte in dentro. Questo non è, in realtà, costume degli uomini giapponesi ma pare fosse prassi per le donne. Loti descrive Madame Chrysanthème con le sue amiche: “et s’efforcent de marcher les bouts de pied tournés en dedans, ce qui est une chose de mode et d’élégance”, ma non specifica che è un’abitudine solamente femminile (Loti, 1888, p. 92). D’Annunzio, leggendo Loti, avrà supposto che questa foggia inconsueta fosse pertinente tanto agli uomini quanto alle donne (Hirashi, 1996, p. 37)

Resta, tuttavia, preponderante il contributo goncourtiano alla creazione del personaggio Sakumi. In “Mandarina” si legge che Sakumi, “nato in un paese dove gli uomini, benché impudichi, hanno dell’amore un concetto singolarissimo era rimasto attonito d’innanzi a certe libertà di linguaggio cortese europeo” (D’Annunzio, 1981, p. 17). Goncourt scrive alcune pagine sul concetto d’amore attribuito ai giapponesi:

Car, sur l’amour, les Japonais ont une manière de sentir, des idées, des délicatesses tout à fait extraordinaires. […] Et au théâtre l’amour d’une jeune fille, et l’amour le plus purement et le plus chastement exprimé, révolterait les spectateurs de cette contrée paradoxale, où l’impudicité court la rue. (Goncourt, 1881, p. 213)

Il nucleo fondamentale della novella, il misunderstanding, si trova in un aneddoto esposto nella Maison d’un artiste. Goncourt ricorda che un giovane giapponese che egli conobbe dal suo amico Philippe Burty, noto critico d’arte, si fosse indignato nell’udire espressioni amorose francesi fin troppo dirette:

Je me rappelle, un soir, chez mon ami Burty, l’indignation d’un jeune Japonais à qui il était demandé ce qu’il trouvait de choquant de dire à une femme qu’on en était amoureux, et qui, après une sortie sur la grossièreté de notre langue, de nos expressions, de nos mots, s’écriait : “Chez nous, ce serait comme si on disait : Madame, je voudrais bien coucher avec vous”. (Goncourt, 1881, p. 213)

Quest’ultima è proprio la stessa frase che Sakumi sillaba nella chiusa di D’Annunzio, con la notevole differenza che, se nell’aneddoto è la maniera erotica occidentale ad apparire grossolana agli occhi giapponesi, nella favola mondana è l’inesperienza del linguaggio dell’orientale a essere motivo di scherno, confuso dai costumi dell’amore europeo.

4 Conclusione. D’Annunzio orientalista flâneur

L’orientalismo dannunziano, dove orientalismo sta per la maniera occidentale di trattare e in certa misura inventare l’oriente (Said, 2013), è lo strumento impiegato dal cronista per tessere nella trama del racconto i fili dorati della lussuria verbale e dell’erotismo discreto. L’abitudine di collezionare manufatti giapponesi, capriccio del poeta sin dagli anni giovanili, non è altro che la manifestazione materiale della pulsione ad accumulare sulla pagina effetti figurativi intriganti, tramite il ricorso a bozzetti esotici destinati ad affascinare il pubblico delle lettrici dei giornali mondani. Il cronista flâneur frequenta i trattati geografici dei viaggiatori in Asia, compendia le curiosità più interessanti e ne riempie le colonne dei giornali, analogamente a come fa il giovane D’Annunzio, cliente affezionato della bottega Beretta di articoli orientali nel cuore di Roma bizantina, che ingombravano le stanze del poeta, come ricorda egli stesso nel Teneo Te Africa:

Era quello il tempo quando incominciava da parte de’ mercatanti esploratori la spoliazione dei palagi e delle pagode. E a Roma v’era appunto una bottega d’arte governata da Maria Beretta, donna di alto gusto, tanto indulgente al mio fervore che mi lasciava portar via a credito il fiore delle sue vetrine. (D’Annunzio, 2005, p. 2556)

La produzione mondana dannunziana degli anni Ottanta, traboccante di prestiti dal giapponese mediati dal francese, raramente si armonizza in una prosa qualitativamente valida. Eppure, in “Mandarina”, la leggerezza svagata del racconto, la padronanza sicura dei mezzi espressivi, lo studio degli ambienti e dei personaggi che saranno propri del Piacere, consacrano questa favola mondana come uno dei risultati più significativi dell’apprendistato bizantino. L’elemento esotico diventa materia stessa del racconto e non soltanto strategia retorica utile ad accendere la curiosità dei lettori. Resta vero, tuttavia, che il Giappone dannunziano è soprattutto un’invenzione, descritto per lo più in termini negativi in contrapposizione al costume occidentale, proprio per ribadire i caratteri identitari del modo di fare europeo e rilanciarli con rinnovata forza. Il cavalier Sakumi del Piacere è l’eterno sconfitto della prosa dannunziana, un sé opposto e complementare al tipo latino del seduttore sperelliano.

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[1] In tutte le sue case, in particolare alla Prioria, la passione dannunziana per il superfluo si rivela soprattutto nella contaminazione dell’arredo fra sacro e profano. Tom Antongini (2013, p. 162) conferma che la disposizione di tutti gli oggetti al Vittoriale è opera dello stesso D’Annunzio: “L’arredamento e l’ammobiliamento vero e proprio d’una casa occupa per D’Annunzio quasi tutto il tempo durante il quale egli vi abita, si tratti anche d’un periodo molto lungo. Il rimaneggiamento dei particolari, le trasposizioni di stanze, i mutamenti, sono nei primi tempi quotidiani e continui. Il costante afflusso di nuovi oggetti comperati o donati, la mania della perfezione, favoriscono questo incessante lavoro di abbellimento e di super-decorazione”.

[2] Il riferimento è ad Assisi, la patria di San Francesco, e rimanda a un verso del Paradiso dantesco: «Però chi d’esso loco fa parole / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Oriente».

[3] Il curioso saluto ricorre in altre pagine di cronaca mondana. Nell’articolo “La vita a Roma: Nuptialia”, in cui commenta il matrimonio di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, D’Annunzio (1996, p. 269) descrive la casa maritale, arredata in stile giapponese: “In un angolo un grande specchio, contornato di stoffe frangiate, riflette una gru di bronzo, l’uccello bene amato nell’Impero del Sol Levante, o Tsouri Sama, sua signoria la Gru”.

[4] La stessa grazia accordata alle figure femminili giapponesi è evidente nelle pagine del Piacere in cui si descrive la nipponica Principessa Issé (D’Annunzio, 2014, p. 72).

[5] Si confronteranno, di seguito, le pagine dannunziane dell’articolo “Toung-Hoa-Lou, ossia cronica del fiore dell’Oriente” ((D'Annunzio, 1996, p. 197-198), con quelle di “Mandarina” in cui compare Sakumi ((D'Annunzio, 1981, pp. 15-20) e poi con le corrispondenti nel Piacere ((D'Annunzio, 2014, pp. 51-69).

[6] Loti sarà anche fonte d’ispirazione per Puccini nella realizzazione della Madama Butterfly (Groos, 2003, pp. 352-363).

[7] Il generale Boum è un personaggio dell’opera buffa La Grande-Duchesse de Gérolstein di Jacques Offenbach.

× Footnote:
[received May 3, 2018
accepted accepted May 30, 2018]

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